American Gods: 2×01 House On The Rock
Quando una serie si fa attendere due anni e, nel frattempo, viene travolta da polemiche e abbandoni eccellenti, il suo ritorno è accompagnato necessariamente da un misto di curiosità e timore da parte dei fan sufficientemente pazienti e appassionati da attenderla. Se le premesse sono quelle di questa première di American Gods, però, si corre il rischio di vedere confermati soprattutto i timori.
Come si diceva, la produzione della serie tratta dal capolavoro di Neil Gaiman ha subito parecchi scossoni, nati in parte dal forte discostamento della stagione iniziale rispetto al materiale originale – che ha portato Gaiman a chiedere un maggior controllo creativo sulla stessa – ma soprattutto dall’abbandono di Bryan Fuller, che ha generato il distacco anche di Gillian Anderson e di Kristin Chenoweth. Come se non bastasse, il sostituto Jesse Alexander è stato poi allontanato dalla produzione, non soddisfatto dei risultati ottenuti fino a quel momento.
Figlio di queste premesse, il primo episodio della stagione si trovava davanti a un compito estremamente gravoso: riprendere in mano le fila di trame vecchie ormai di due anni, riempire i vuoti di almeno un personaggio fondamentale e trovare una nuova chiave narrativa che non scontentasse i fan della prima stagione ma che, al contempo, rispondesse alle nuove esigenze produttive.
Un compito che, purtroppo, non è riuscito ad assolvere in maniera convincente.
House On The Rock ha, come primo impatto, lo stesso effetto di provare a mangiare il proprio piatto preferito nel ristorante del cuore dopo che questo ha cambiato gestione e chi l’ha preso in mano ha tutte le ricette, ma ancora non è in grado di personalizzarle. Il sapore non è malvagio, non è neanche del tutto diverso da quello che ci si aspettava, eppure manca quel qualcosa che faceva desiderare di averne doppia o tripla porzione. Manca l’anima.
L’episodio è confezionato in modo oggettivamente buono, con effetti visivi fin troppo prorompenti che ricalcano parzialmente la chiave visiva originariamente dettata da Fuller, ma se andiamo oltre l’estetica (e anche su questa c’è qualche obiezione che si può fare) resta poco. Una première ha bisogno di stuzzicare lo spettatore, catturarlo e legarlo a sé per il resto della stagione, ma questa si limita quasi esclusivamente a portare avanti i compiti di base: ricordare dove si era arrivati nella stagione precedente, spiegare/citare la sparizione di Easter e Media e proseguire su un binario ben tracciato e, per questo, piuttosto prevedibile.
L’avanzamento della trama è molto limitato e questo, anche se abbastanza tipico della serie, pesa più del solito perché ciò che rimane è meno prezioso di ciò a cui eravamo abituati. Se, infatti, l’interpretazione di Ian McShane rimane a livelli altissimi, supportata anche da un’ottima prova di Orlando Jones, ciò che viene fornito loro appare sbiadito e svuotato di quel mistero e di quella grandezza che erano intuibili nel libro oltre che nella prima stagione. Per fare un esempio, quasi mai in entrambi era stato necessario dire i veri nomi degli Antichi Dei, lasciando quel velo di mistero sulla loro identità e permettendo che fossero le azioni e i suggerimenti a parlare per loro: in questo episodio, invece, i loro nomi sono non solo detti, ma ripetuti e ribaditi, con Odino che cita amabilmente anche Loki e Thor. È tutto esplicito, quasi banalizzato e, sebbene non ci sia formalmente niente di sbagliato, la magia del non detto è persa, trascinata via – oltre a quanto detto – anche dagli effetti speciali così invadenti (e a volte apparentemente economici) da far perdere l’importanza del tanto atteso ritrovo.
La scrittura sembra promettere tanto senza riuscire a ottenere realmente granché, perdendosi in virtuosismi spesso fini a loro stessi come il focus sul meccanismo dietro un oracolo da baraccone: non che nella prima stagione non ci fossero certi giochi stilistici, ma se in quella sede si incastravano nello stile della mente creativa, qui sembrano una toppa giallognola attaccata su una giacca bianca.
L’aspetto prettamente visivo continua a essere, fatte salve le eccezioni di CGI già citate, un punto di forza: la House On The Rock del titolo – che esiste davvero – è uno scenario perfetto e incredibilmente evocativo e a maggior ragione infastidisce che le sue potenzialità siano andate così sprecate.
Fa piacere vedere più spazio concesso alle altre divinità, Anansi in primis, anche se viene trasmessa la strana sensazione di una riduzione del cast e quindi di un suo maggior accentramento. Si tratta di un aspetto che a volte si è visto in altre serie, partite con un cast estremamente ampio e variegato per poi focalizzarsi nel lungo periodo su pochi personaggi, perdendo così in ricchezza e varietà. Un rischio che sarebbe pericolosissimo per American Gods, che trova la sua forza anche nel pantheon a cui può attingere e che se dovesse finire per focalizzarsi su quattro o cinque Antichi Dei e due (o tre, se dovesse tornare Media con un nuovo volto) Nuove Divinità non riuscirebbe a trasmettere la grandezza della guerra in atto.
In questo episodio già non avviene, nonostante un attacco cruento (e forse fin troppo splatter) ai danni delle antiche divinità, la cui messa in scena è caotica e resa emotiva pressoché nulla, complice anche la quasi totale perdita di appeal degli antagonisti: il pur bravo Crispin Glover non è sufficiente a non far sentire la mancanza di Gillian Anderson e certe volte si ha l’impressione che possa uscire dal personaggio e prorompere con un “ehi tu porco levale le mani di dosso”.
Se i protagonisti si reggono sulle spalle di un uno o due membri del cast e gli antagonisti non emozionano, non resta molto a cui aggrapparsi: se bastassero immagini evocative e colorate ci accontenteremmo di un album di foto, non di una serie tv così attesa.
Una stagione tanto breve, nata dopo un intervallo tanto lungo, ha bisogno di decollare velocemente o rischia di fare un tonfo enorme. Con soli sette episodi davanti, The House On The Rock non è di certo il ritorno che speravamo, ma è forse quello che temevano.
Il materiale per aggiustare il tiro c’è, il tempo per farlo anche: la sola speranza è che questo patchwork di menti non finisca per essere un’accozzaglia senza identità che porterà lo spettatore a stancarsi prima del tempo.
Noi vogliamo dare ancora fiducia, ma i timori sono sempre più grandi.