The Handmaid’s Tale: 2×12 Postpartum
Nonostante il titolo dell’episodio, che farebbe inizialmente pensare a una ripresa degli eventi immediatamente successiva alla nascita di Holly, Postpartum si concede un salto narrativo di alcuni giorni, permettendosi così di fornire spiegazioni (un po’ troppo) veloci sulla sorte di Nick e sulle sorti di June dopo il parto solitario.
Se per quanto riguarda il padre biologico della bambina le conseguenze sono state sostanzialmente nulle, la protagonista è di fatto tornata nel suo status quo, con l’aggravante della separazione forzata dalla bambina: Serena si era ripromessa di cacciarla e così ha fatto, relegando Offred al ruolo di produttrice di latte a distanza.
Niente di inaspettato, a dirla tutta: l’egoismo della signora Waterford è ormai noto e il bene della bambina è secondario al suo bisogno di averne controllo assoluto, almeno per buona parte della puntata. Fred, dal canto suo, non fa nulla per generare dubbi nello spettatore relativamente alle sue qualità umane: focalizzato sull’ottenere il maggior prestigio possibile dalla situazione, non perde occasione – una volta riportata June a casa – di farle le ennesime disgustose avances, convinto di avere diritto a qualche forma di perversa gratitudine da parte della donna. Il distacco dalla realtà dell’uomo, il suo essere tanto focalizzato su se stesso da non ritenere – o autoconvincersi, cambia poco – di aver mai fatto alcunché di male, è tanto irritante quanto realistico: “uomini” – le virgolette sono d’obbligo – del genere sono ben più comuni di quanto ci piaccia pensare e Waterford ne rappresenta solo un ritratto inquietantemente fedele.
L’illusione è un concetto che più volte è tornato nella serie e nelle nostre riflessioni. L’illusione del comandante di essere un uomo giusto e guidato da dio. L’illusione che nascondere uno stupro dietro il termine cerimonia lo renda meno grave. L’illusione che tutti in Gilead siano felici e appagati. L’illusione delle mogli durante le simulazioni di parto. E l’illusione di Serena nel poter stabilire un rapporto con una bambina rubata, tanto da provare a darle il suo seno asciutto da poppare. Un momento in cui rabbia e pena fanno a gara nello spettatore, anche volendosi dimenticare dei troppi crimini della donna.
Sarà però, in modo imprevedibile e drammatico, la giovane Eden a mostrare ancora una volta quanto la recita di Gilead non salvi nessuno se non – parzialmente – i propri leader. Emotivamente sola, infatuata di un ragazzo di poco più anziano, assetata d’amore come solo un adolescente può essere, la sua convinzione che Dio la proteggerà è al contempo la sua condanna a una morte terribile davanti – tra gli altri – alla sua famiglia. Se Waterford – neanche a dirlo – ha come sola preoccupazione le conseguenze della fuga della giovane sul suo prestigio, per June, Nick e la stessa Serena (che, comunque, porta un infante a un’esecuzione, esempio lampante di qualità materna) qualcosa si spezza. Se Gilead non protegge neanche i propri figli più giovani, se le parole della Bibbia vengono usate per giustificare anche l’omicidio di una ragazzina e del suo innamorato, allora cosa davvero sta difendendo? Lo spettatore, così come ogni ancella e personaggio coi piedi per terra, lo sa bene, ma per altri l’accettazione è sempre più difficile.
Per Serena significa, per ora, consentire a June di allattare Holly (o Nicole, come la chiama lei). Troppo poco e troppo tardi, sicuramente, ma in qualche modo simbolico. Per Nick sarà un peso costante nato dal senso di colpa che non possiamo immaginare se avrà ulteriori conseguenze.
Parallelamente assistiamo a sviluppi potenzialmente interessanti per Emily. Condotta dall’unico comandante ancora disposto ad accoglierla, l’ancella si ritrova in una situazione imprevista e complessa da leggere. Joseph Lawrence, interpretato da Bradley Whitford (il mai dimenticato Josh Lyman di The West Wing), è un pezzo grosso: l’uomo dietro la struttura economica di Gilead. Eppure è un personaggio strano: non interessato alle formalità tanto care a Waterford, inaspettatamente diretto nella comunicazione con la neo arrivata ancella e molto ben informato su tutti i suoi trascorsi.
La sensazione a pelle è quella di un uomo pentito e amareggiato dalle conseguenze delle sue azioni – impressione confermata dalla breve scena con protagonista la moglie – ma il timore di rischiare di fidarsi della persona sbagliata è enorme, per Emily e per noi.
Lawrence potrebbe essere un nuovo, ancora più subdolo, genere di mostro o un inedito tipo di alleato: è troppo presto per dirlo e probabilmente si tratterà di uno dei punti che verranno approfonditi con la terza stagione.
Un penultimo episodio che, nel complesso, pur restando di qualità elevata, sembra essere sottotono: la reiterazione del ritorno di June in casa Waterford sta diventando un leit-motiv da cui è necessario sganciarsi, perché a ogni riproposizione perde efficacia e mordente, per quanto bene possa essere motivata. La stessa sottotrama relativa a Eden è sembrata un po’ frettolosa: per troppi episodi la ragazzina è sembrata essere solo un elemento di disturbo o di potenziale minaccia nei confronti di Nick, per poi trasformarsi in vittima sacrificale tanto velocemente da non permettere una completa empatia da parte dello spettatore. Ciò che avviene è terribile e la scena della morte è l’ennesimo pugno nello stomaco, ma l’impatto emotivo, a conti fatti, anestetizzato rispetto al potenziale.
Il ruolo di Waterford, poi, sta ormai esaurendosi: il suo essere simbolo negativo degli uomini alla base di Gilead è ormai uno status quo radicato che a ogni esternazione risulta ormai irritante senza aggiungere altro al personaggio o alla storia.
Ottima, invece, l’idea di introdurre un elemento di distacco come il comandante Lawrence, nella speranza che venga sfruttato a dovere e – non lo neghiamo – che non sia l’ennesima variazione sul tema del mostro dal volto umano.