Patrick Melrose: quando il dolore è compagno di vita

Quando avevamo parlato del primo episodio di Patrick Melrose, non avendo chi scrive letto i romanzi originali, avevamo ipotizzato uno svolgimento della serie che, pur approfondendo gli spunti già comparsi nella première, avrebbe mantenuto lo cifra stilistica di questa, proseguendo toni, ambientazioni e stile narrativo; sbagliavamo, sottovalutando una serie che si è rivelata ancora più sfaccettata e ben costruita del previsto.

L’episodio iniziale aveva, in realtà, lo scopo – oltre all’ovvia necessità di catturare lo spettatore – di fungere da spartiacque e definizione delle basi su cui i successivi avrebbero poi costruito la propria narrazione, in una costante alternanza tra presente e passato, tra prima e dopo, i cui punti fermi sono, in primis, la morte del terribile genitore del protagonista e, successivamente, i vari momenti segnanti della vita di Patrick, uomo costantemente inseguito da spettri che nessun essere umano dovrebbe portare con sé.

In una scelta coraggiosa e funzionale, il secondo episodio vede un ridottissimo screen time di Benedict Cumberbatch, focalizzato com’è su quei maledetti giorni dell’estate del 1967 in cui tutto, per il giovane Patrick, cambia per sempre: è David, l’orco genitore interpretato da un eccezionale Hugo Weaving, il fulcro dell’intero episodio e non avrebbe potuto essere altrimenti per permetterci di comprendere il dramma del protagonista.

[pullquote]In Never Mind ci viene data in pasto la realtà, dura, cruda e mai abbellita[/pullquote]

Se, infatti, in Bad News siamo spettatori dell’odio radicato di Patrick e del contrasto tra il suo sentire e quello dei vecchi amici dell’uomo, in Never Mind ci viene data in pasto la realtà, dura, cruda e mai abbellita.

Un uomo sadico, crudele, il cui massimo piacere è l’umiliazione e sottomissione del prossimo, che ama circondarsi di lacchè più o meno consapevoli e che, come ogni uomo vile, non perdona alla moglie il suo essere ricca, non perdendo occasione di sottometterla non solo verbalmente: questo è David Melrose e, date le premesse, il piccolo Patrick non avrebbe certo potuto salvarsi in alcun modo.

Lo spettatore è inizialmente portato a credere che i maltrattamenti psicologici e le a dir poco opinabili lezioni fisiche da lui subite siano più che sufficienti a segnare l’adulto incontrato nella première ma, purtroppo, all’orrore non c’è fine e ce ne viene data dimostrazione con ciò che, usando le stesse parole del protagonista, “nessun essere umano dovrebbe fare a qualcun altro”: a partire da quell’estate il bambino è oggetto di ripetute violenze sessuali da parte del padre, delle quali la prima viene svelata allo spettatore impotente e inorridito senza che sia necessario in alcun modo mostrare esplicitamente la scena; è sufficiente una porta chiusa a farci capire cosa accade, in una scelta di regia elegante e dolorosamente efficace.

Da quel momento tutto, per Patrick, cambia. Mutano il suo rapporto con la realtà, col mondo, con la madre stessa – di cui parleremo tra poco.

Se il primo episodio mostra lo status quo del protagonista alla morte del padre e il secondo ci racconta le radici del dolore, i tre seguenti si focalizzano su vari momenti della vita dell’uomo, dal suo primo tentativo di ritorno a una vita apparentemente normale alle nuove cadute e alla definitiva epifania successiva alla morte della madre.

È proprio Eleanor, cui dà il voto la bravissima Jennifer Jason Leigh, a essere inevitabilmente il secondo fantasma di Patrick, colpevole per certi versi tanto quanto il vero carnefice.

Di famiglia ricca, sposatasi con David con l’illusione di poter fare del bene nel mondo, si trova invece imprigionata in una gabbia ad alimentare le smanie di grandezza dell’uomo materialmente, coi suoi soldi, e moralmente, rimanendone succube e vittima e trovando rifugio, per anni, in alcool e pillole, in una fuga che lascia solo l’unico individuo che avrebbe dovuto proteggere, suo figlio; non solo, quando poi decide di andarsene realmente, lo fa lasciando indietro Patrick, consegnandolo, di fatto, nelle fauci del predatore.

Il bisogno di sentirsi utile guida poi la donna per il resto della sua vita, col suo sguardo sempre rivolto, come troppo spesso accade, all’esterno e mai ai torti rimasti in casa: ben più facile è fare del bene agli estranei, la cui gratitudine sarà probabilmente proporzionale al denaro speso, molto meno è fare ammenda per i danni fatti nella propria famiglia. Eleanor è una donna debole, egoista, che non ha mai voluto vedere il male fatto in casa e che ha sempre cercato l’autocompiacimento della beneficenza, al punto da diseredare Patrick per poter fare un’ultimo atto di pseudograndezza e, così, alimentare il suo ego.

Dimostrazione estrema del suo egoismo si ha nel momento della rivelazione da parte dell’uomo delle violenze subite: pochi istanti e la donna lo priva della propria, drammatica, confessione tarpandone le parole con un lapidario “anche a me”, come se questo fosse sufficiente a giustificare il suo comportamento sul momento e negli anni.
Il tutto protetto da un “ho fatto tutto quello che potevo” ripetuto come un mantra a protezione di una verità scomoda.

È con questi spettri che Patrick deve scontrarsi, volente o nolente, nel corso della sua vita e non è sufficiente la morte del padre a metterli tutti alle proprie spalle: se la sua autodistruzione tramite le dipendenze sembra prendere una pausa dopo questo primo evento, sarà necessario l’addio a sua madre per consentirgli di chiudere davvero le porte al passato. Nel frattempo, però, la sua vita sarà un continuo altalenarsi di picchi e cadute nel quale neanche la presenza di una moglie e dei figli che lo amano potrà aiutarlo a evitare la continua, crescente, ricerca di autodistruzione.

Sul suo percorso poche le costanti: Johnny (Prasanna Puwanarajah), amico leale pronto negli anni a fargli da sostegno e voce della ragione, ma anche Julia (Jessica Raine), una presenza attraente quanto tossica, incapace di empatia e incastrata in un ruolo che lo stesso Patrick finisce per riconoscere come velenoso e dannoso.

Patrick Melrose è figlio di traumi, ma non è esclusivamente una vittima. È un uomo intelligente e sarcastico che ha dovuto combattere con l’oscurità per tutta la vita e che, in altre situazioni, avrebbe rischiato di fare gli stessi danni – con mezzi diversi – generati dal padre: sarà solo la capacità di reazione di una moglie agli antipodi di sua madre a impedire che questo avvenga e, in qualche modo, a indicargli la strada della salvezza. In cinque episodi impariamo a empatizzare col suo dolore, a comprendere la sua disperazione, ma anche a non perdonargli i tanti, frequenti errori iterati fino all’esasperazione in un circolo vizioso che solo sul finale, una volta raggiunta l’epifania della morte del passato, riuscirà a spezzare – ci auguriamo – definitivamente.

Ho capito che non voglio più vedere fantasmi. Voglio vedere gente reale.

La scelta di focalizzare ogni episodio su un capitolo – e, di conseguenza, un libro originale – diverso è vincente, permettendo allo spettatore una visione d’insieme in cui i buchi mancanti possono essere riempiti per indizi e intuito: non accade mai che si senta la mancanza di qualcosa di non mostrato, la narrazione riesce a essere completa pur nei salti.

Sulla recitazione potremmo tranquillamente non aggiungere nulla: Benedict Cumberbatch sfodera il suo talento donando un uomo complesso, tridimensionale, fragile, sarcastico e arrabbiato, senza mai eccedere se non quando richiesto dallo script, in particolare nel primo episodio. Il dolore del suo personaggio è trasmesso dai toni di voce, dalle espressioni dagli occhi, dalle vibrazioni contenute in una battuta. Chiunque l’abbia amato in Sherlock o in The Imitation Game non potrà non adorarlo in Patrick Melrose.

Ma, dobbiamo ripeterlo, la serie non raggiungerebbe certi livelli se non ci fosse il supporto di Jennifer Jason Leigh e di Hugo Weaving. Perfetta la prima nel trasmetterci una donna prima stordita da alcool e medicinali e poi chiusa in un suo mondo illusorio e slegato dalla realtà, incredibile il secondo nel dare vita a un uomo che genera orrore, repulsione e rabbia in ogni singolo gesto, sguardo e parola.

Una miniserie non banale, imperdibile e spiazzante che potrebbe inizialmente attirare esclusivamente per la presenza di Benedict Cumberbatch, ma in cui poi scrittura, recitazione e regia fanno a gara per accaparrarsi l’attenzione dello spettatore.

Patrick Melrose è in onda dal 9 luglio, alle 21,15, su Sky Atlantic HD

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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