The Handmaid’s Tale: 2×05 Seeds
Seeds. Semi. In un territorio metaforicamente e materialmente sterile come Gilead è strana l’associazione ai semi, soprattutto considerando come in Other Women avevamo assistito alla distruzione meticolosa del seme più importante, quello dell’autoconservazione e della ribellione.
Ma Seeds è un episodio che, pur proseguendo nel percorso di approfondimento delle crudeltà intrapreso dalla stagione, cerca di mostrare qualcosa in più e, potenzialmente, di diverso.
Partendo da Serena, la moglie il cui figlio Offred porta in grembo. Una donna che prima del colpo di stato era stata persona di cultura, aveva scritto libri, era parte dell’èlite del proprio partito e che ora, in Gilead, non è altro che la moglie di Fred Waterford. Moglie di. Un titolo che di certo non è come l’essere ribattezzata come proprietà di qualcuno, ma che finisce per essere molto stretto per chi ricorda il proprio ruolo precedente.
I semi, in Serena, sono quelli dell’insofferenza: quella in origine rivolta verso Offred e che ora, persa la sua vittima prioritaria, cerca altri destinatari; le altre mogli, ovviamente, ma soprattutto Zia Lydia, così invadente, così pronta a ricordarle che anche lei, Serena, passa in secondo piano rispetto all’importanza di un nuovo bambino figlio dello Stato, così sfuggente dall’autorità che la moglie ritiene di avere.
Lo smacco peggiore è una matita: quella con cui Zia Lydia prende appunti, nonostante il divieto di lettura e scrittura che ha colpito tutte le donne di Gilead. Una dispensa speciale che, a dire della Zia, è più un peso che altro, ma una Zia può scrivere, mentre a una moglie che in passato era scrittrice è fatto divieto. E i semi dell’insofferenza crescono.
Un’insofferenza, dicevamo, che va a colpire anche Nick, colpevole di difendere Offred e di essere troppo presente (senza contare il suo essere il padre biologico del bambino), e che conduce al momento di maggior abominio dell’episodio e, sicuramente, a uno dei più disturbanti della serie: il matrimonio di stato con spose bambine.
“Non c’è tempo da perdere” è la scusa per prendere ragazzine adolescenti appositamente cresciute nelle rispettive famiglie, condurle velate davanti a uomini mai visti, celebrare il loro matrimonio e, sostanzialmente, spingere perché inizino da subito a procreare. Il cerchio si chiude, chiarendo che non solo il ruolo di una donna è esclusivamente di incubatrice ambulante o di supporto manuale, ma che questo inizia appena raggiunge l’età fertile. Quando Gilead sembra aver toccato il fondo, inizia puntualmente a scavare.
Altrove, nelle colonie, il seme è quello della speranza e dell’umanità, per quanto incredibile possa sembrare. Per una Emily il cui unico modo per sopravvivere è alimentarsi, comprensibilmente, del proprio odio, c’è una Janine che non contempla l’opzione. Privata di un occhio, pronta a suicidarsi, quasi lapidata, la donna sembra avvolta in una nuvola di inconsapevolezza che fa infuriare Emily.
Gilead ha preso il tuo occhio. Si sono presi il mio clitoride. Ora siamo mucche che vengono fatte lavorare fino alla morte e tu stai addobbando il mattatoio di fiori.
Ma Janine non è inconsapevole, ha solo deciso che non vuole morire senza speranza. Ha compreso che morirà presto, ma preferisce farlo cercando di trovare bellezza piuttosto che distruggendo del tutto la propria anima. Lo fa citando Dio e Zia Lydia, la sua carnefice e colui in nome del quale ogni male è stato fatto, eppure li trasforma in qualcosa di positivo. È così che nelle colonie, nelle terre più disperate di Gilead, viene celebrato il primo matrimonio omosessuale della nazione. Una notte prima del funerale di una delle spose, ma quel piccolo istante è stato di consolazione in mezzo alla disperazione. Un seme di speranza dove speranza non dovrebbe essercene più.
L’ultimo seme è quello che speravamo di vedere, ma temevano di aver perso, quello della ribellione di Offred, che torna a vedersi solo quando la disperazione ha superato il punto di non ritorno. Durante l’intero episodio, l’ancella è stata la rappresentazione vivente della resa incondizionata. Passiva, silenziosa, meccanica in gesti e parole, resa in maniera egregia da una Elisabeth Moss mai sufficientemente elogiata. Se neanche il momento della potenziale perdita del bambino sembra scuoterla – emblematica e terribile la scena del bagno nell’acqua intrisa di sangue -, l’unico suo istante di emozione è quello della Prayvaganza, in cui le sue lacrime scorrono in drammatico contrasto coi sorrisi sadici e compiaciuti dei Waterford.
Ma non è neanche quello a liberarla, anzi, si tratta dell’ultima spinta sul fondo della buca. Il seme nasce dopo. Dall’inaspettata sopravvivenza del feto nel suo grembo. Dalla ritrovata consapevolezza di non voler dare alla luce un bambino in quell’inferno. Il seme della ribellione nasce nel momento in cui Offred ha qualcuno da proteggere e salvare, dato che il percorso degli episodi precedenti aveva annullato qualunque volontà di autoconservazione.
Difficile dire, a questo punto, che piega possano prendere le dinamiche dei personaggi. Se gli aspetti più prettamente sadici sono passati parzialmente in secondo piano – pur non dimenticandoci l’abominio delle spose bambine – le possibilità che la serie rimanga in una sorta di terreno sicuro sono ancora alte. Seeds ci fa ben sperare, ponendo le basi per svolte ed evoluzioni interessanti, sia sul fronte di Offred che su quello, ancora molto limitato, delle Colonie. L’impressione è quello di un anello di congiunzione che separa una prima parte di caduta da una seconda – si ipotizza – di reazione, ma avevamo già immaginato una possibilità del genere ed eravamo stati prontamente smentiti, per cui attendiamo con non pochi timori e altrettanta curiosità il seguito.