Nel segno della pecora
“Cos’hai letto di recente?”
“Oh, sai, solite cose. Ho letto la storia di un tizio che ha un certo feticismo per le orecchie e si mette con una modella di orecchie/correttrice di bozze/ragazza squillo piuttosto irritante e finisce ad andare alla ricerca di un demone/pecora che prende possesso delle persone”.
Ecco, questo è esattamente ciò che si potrebbe dire dopo aver letto Nel segno della pecora e sarebbe un riassunto assolutamente fedele e preciso. Ma non esaustivo.
Perché, come sempre, i libri di Murakami non sono solo nella loro trama o nei dialoghi o nelle descrizioni. Sono in ciò che creano intorno a loro. I suoi romanzi sono spesso e volentieri formule magiche che generano un incantesimo nel quale il lettore è trascinato spesso inconsapevolmente, almeno finché non è troppo tardi.
È così che non si stupisce particolarmente di una sequenza di pagine sulla sensualità di un paio di orecchie e sui loro poteri o che trova perfettamente normale un dialogo tra un personaggio tendenzialmente normale e uno vestito con un costume da pecora che beve whisky.
Perché nel mondo creato da Murakami è tutto assolutamente legittimo e funzionale e noi possiamo soltanto dire “ah, sì, ok, prendo atto”.
E così tutte le stranezze diventano un mezzo e si finisce per immergersi nello strato inferiore che, per forza di cose, sarà diverso per ognuno dei lettori. Si percepirà magari il fastidio verso alcuni personaggi, la frustrazione del protagonista, la rassegnazione verso qualcosa di tanto esterno da non poter essere alterabile dall’uomo comune, la ribellione stessa di quest’ultimo nel rifiuto dei premi di consolazione.
La passività è spesso elemento caratterizzante dei personaggi di Murakami e qui non si fa eccezione: anzi, se vogliamo, qui si pongono le basi per caratteristiche che verranno poi sviluppate e approfondite in romanzi successivi. Una passività di quasi tutti i personaggi principali, che cercando di agire, ma poi spesso scuotono le spalle e si chiedono cosa davvero possono fare, salvo poi rendersi conto che sì, qualcosa possono farla, perché anche porsi la domanda è già fare qualcosa, è già cambiare il terreno, è già agire.
Non è il miglior libro dell’autore, se una tale classificazione può essere fatta: è uno dei primi, sicuramente acerbo in vari punti, surclassato nello stile da altri, eppure gli ingredienti ci sono tutti. Sono solo un po’ più grezzi e meno lavorati, ma ci sono.
Promosso, indiscutibilmente. E occhio a non farvi prendere dalla Pecora.