Non stancarti di andare
Sono terribilmente combattuto nello scrivere di questo volume, perché ci sono due voci contrastanti, di cui una oggettiva e una terribilmente soggettiva. Sarebbe facile dire “l’oggettiva è la più importante”, ma è anche vero che nell’apprezzamento di un libro, così come di qualunque altro modo di raccontare una storia, la soggettività è un ingrediente fondamentale.
Quindi sono in una sorte di impasse che cercherò di gestire al meglio possibile.
Partiamo con alcune premesse, per poi proseguire con gli aspetti oggettivi.
La premessa è che avevo enorme fiducia nel nuovo lavoro di Teresa Radice e Stefano Turconi. Dopo aver adorato Il Porto Proibito, l’annuncio fatto a settembre del nuovo volume mi aveva fatto fremere di anticipazione, tanto da acquistarlo immediatamente a Lucca ed essermelo poi fatto dedicare e disegnare a Milano in un incontro qualche settimana dopo.
Inoltre le anticipazione parlavano di una storia importante, commovente, difficile.
Come non avere aspettative alte?
Ecco, una volta letto, posso dire che il volume è oggettivamente bello. I disegni di Stefano Turconi, stavolta colorati, raggiungono livelli notevolmente alti e la storia è coinvolgente e difficile, come promesso.
I personaggi, reali e vivi, escono dalle pagine per raccontare in prima persona la propria storia e mai si ha l’impressione, dal punto di vista della vicenda, di qualcosa di forzato o fuori luogo.
Ci si appassiona, ci si può emozionare, si desidera sapere come proseguiranno le disavventure dei personaggi e, soprattutto, si riflette sulle condizioni di chi fugge dai paesi in guerra. Ci si riflette non per pietà, ma per empatia, immedesimandosi in quanto avviene.
Tutto bene, quindi (e qui entra la parte soggettiva)?
Purtroppo no.
Perché se i disegni sono splendidi, se la sceneggiatura è ben scritta, se (aggiungo) i dialoghi sono spesso centrati e funzionanti, quello che pesa è la prosa dei tanti momenti di non dialogo.
Lettere, diari, voci fuori campo sono carichi di una forma pesante, arcaica, carichi di aggettivi come fosse uscita da un romanzo del secolo scorso e che, in una lettera scritta a un bambino, stonano pesantemente. Così come finisco per essere stucchevoli le innumerevoli citazioni di cui tali scritti sono infarciti: l’intenzione evidente di dare un’ambientazione al testo, di fornire un contorno poetico, di dare una base ulteriormente autorevole al messaggio che si vuole trasmettere finisce per essere tradita e per ottenere l’effetto opposto. Ho lottato più volte con me stesso per non saltare alcuni di questi passaggi che – onestamente – non aggiungono molto alla vicenda di per sé.
Poi, durante la lettera post titoli, si scopre che molto di quanto c’è nel volume non è – ovviamente – autobiografico ma ha comunque forti basi nella realtà e questo porta, almeno in parte, a perdonare: in molti di quei scritti c’è l’anima stessa dell’autrice e questo non si può giudicare, si può solo prenderne atto e ammirare.
Ma rimane il fatto che quegli elementi sono stati, almeno per me, un ostacolo non da poco.
Lo consiglio?
Molti che l’hanno letto lo definiscono il miglior volume del 2017. Io lo considero un volume di qualità e con molto da dire, ma dei cui potenziali limiti (potenziali, perché altri potrebbero non considerarli tali) bisogna tenere conto.