The Alienist: 1×01 The Boy on the Bridge

La storia extra-cartacea del romanzo The Alienist di Caleb Carr è stata piuttosto travagliata: già nel 1993, prima ancora della sua pubblicazione, i diritti cinematografici erano stati acquistati da Paramount, ma il film non ebbe mai la luce a causa della difficoltà di adattare per il grande schermo una storia di oltre 500 pagine.

Poi è arrivata TNT, con una mega-produzione che ha optato per una più adeguata soluzione seriale, investendo ingenti somme di denaro sia per la ricostruzione visiva che per il cast impiegato, un cast che include protagonisti del calibro di Daniel Brühl – recentemente visto in Captain America: Civil War e in RushDakota Fanning Luke Evans.

Il Dottor Laszlo Kreizler,interpretato da Brühl, è l’alienista del titolo: venivano chiamati così, nel 1800, gli psichiatri che si occupavano di valutare la condizione psicologica degli autori – o presunti tali – di crimini violenti; il termine derivava dal concetto per cui chiunque fosse in grado di certe azioni fosse alienato dalla sua vera natura.

Kreizler si troverà a indagare, appoggiandosi a un illustratore giornalistico (il John Moore interpretato da Luke Evans) e alla prima donna in forze in una stazione di polizia (Dakota Fanning), su una serie di cruenti delitti che hanno come vittime giovani prostituti, i cui corpi vengono trovati dilaniati in una New York raramente così sporca e scura.

Nella trama appena descritta c’è il primo, ma non unico, problema della serie. Se, infatti, nei primi anni ’90 una storia con questa ambientazione e simili presupposti era da considerarsi avvincente e innovativa e un potenziale film avrebbe potuto diventare, com’era intenzione di Paramount, un nuovo Silenzio degli innocenti, vent’anni dopo la situazione è estremamente diversa e il pubblico ha avuto parecchio materiale su cui affinare gusti ed esigenze.

Il numero di serie di alta qualità con presupposti simili e/o personaggi sovrapponibili a quelli proposti da The Alienist non è esiguo e porta a farsi una domanda scontata: in cosa questa nuova serie dovrebbe brillare rispetto a ciò che l’ha preceduta?

La risposta, almeno a giudicare dal pilot, è “ben poco” e lo diciamo con una certa amarezza.

Visivamente, la serie è curata e impressionante: Budapest, dov’è stata girata, interpreta la vecchia Manhattan alla perfezione e le immagini, ancorché patinate, trasmettono un vero senso di sporco e polveroso, in un’attenzione alla fotografia che risulta certe volte fin troppo manieristica e invadente e che finisce in alcuni momenti per soffocare le vicende in scena.

La trama ha spunti interessanti – si consideri che chi scrive non ha letto il romanzo e quindi non può dire quanto sia stato reso fedelmente o meno – ma in diversi momenti le azioni e i dialoghi sembrano mancare di nesso causale, come se al momento dell’editing fossero state tagliate alcune scene utili a una maggior comprensione da parte dello spettatore.

I personaggi, sempre basandosi sul solo pilot,  risultano fortemente stereotipati: a partire dallo psichiatra/investigatore col broncio fisso e alcuni problemi di interazione umana, per proseguire con la spalla più mondana e dalla funzione di contraltare e arrivare ai poliziotti irlandesi corrotti e volgari e al capo duro ma tutto d’un pezzo. Se state avendo una forte impressione di deja vu, allora vi stiamo trasmettendo la nostra stessa sensazione, figlia – lo ripetiamo – di un arrivo probabilmente fuori tempo massimo di una storia nata per un pubblico che ne aveva viste molte di meno.

La recitazione, che non può comunque essere considerata negativa, ha però dei punti che lasciano perplessi. Luke Evans, in particolare, non sembra calato del tutto nella parte e dà l’impressione di non sapere bene chi è e cosa sta facendo: se questa era l’intenzione, allora è stato bravissimo, altrimenti ci vorrebbe qualche correzione. Lo stesso Brühl, però, non svetta particolarmente: che si tratti di un ottimo attore non ci sono dubbi, ma qui sembra più concentrato a mostrare quanto il suo personaggio sia strano meditabondo che a renderlo reale.  Dakota Fanning, invece, sembra essere più immersa nel ruolo, che risulta anche essere il più moderno tra quelli principali, il che probabilmente aiuta.

Il risultato è un episodio che non possiamo in alcun modo definire brutto, ma che non riusciamo a dire che ci abbia convinto: gli ingredienti per qualcosa di appassionante ci sarebbero, ma sembra siano stati messi sul tavolo senza che nessuno si sia preso la briga di miscelarli a dovere, fare lievitare l’impasto e accendere il forno.

Abbiamo davanti qualcosa di bello (e a volte esplicito) da vedere, recitato in un certo senso da manuale, ma privo di un’anima che giunga allo spettatore e gli faccia attendere con ansia il seguito.

La speranza è che i nove episodi che seguiranno siano in grado di correggere quelli che potrebbero benissimo essere problemi del solo pilot e che la visione su Netflix in binge-watching porti a rivalutare l’insieme: per ora la sufficienza, figlia delle scenografie, della qualità – sebbene sottotono – degli attori e di una storia potenzialmente interessante, c’è.

Ma la sufficienza, per una serie come questa, non è certo da considerarsi un gran traguardo.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Consenso ai cookie GDPR con Real Cookie Banner