Non sono capace

Non so se ne sono capace, sai?
Per Zen, per certi versi, mi ero preparato, in qualche modo assolutamente non sufficiente.
Per Rooney il dolore era tanto, ma per forza di cose diverso.
Ma con te.
Come riassumi dodici anni di vita in un post di merda come questo?

Come fai a spiegare, a mettere nero su bianco tutto ciò che sei stato? E come fai anche a trasmettere lo schifo che fa dover parlare al passato. Tu dovevi essere qui, oggi. Magari avrei dovuto curarti, medicarti, preoccuparmi che mangiassi, ma dovevi essere qui. Invece mi hai lasciato solo. E il senso di colpa che provo per com’è andata ieri sera è qualcosa con cui dovrò fare i conti a lungo.

Dodici anni. Non ho avuto storie, nella mia vita, così lunghe. Tu sei stato il mio compagno di vita. C’è stato sempre un prima e un dopo qualcosa. Prima e dopo una nuova storia, prima e dopo un matrimonio, prima e dopo una separazione, prima e dopo Zen, prima e dopo Rooney. Ma tu ci sei sempre stato, in questi dodici anni. Ora c’è un prima e dopo di te e io non sono sicuro di saperlo gestire.

Domenica ero convinto avessi mal di denti, illuso me. E ora non ci sei più. Sei su quel maledetto balcone in attesa che ti porti a dormire con Zen. Insieme di nuovo. Almeno questo. Ma intanto mi avete lasciato solo.

Dodici anni. Quasi dodici. Era il 14 gennaio 2006 il giorno in cui ti vidi la prima volta. Enpa di Monza. Avevamo deciso che era il momento di avere un gatto e non doveva essere troppo giovane. Ci mostrarono te, che eri stato con una volontaria fino a quel momento. Ricordo che la prima cosa che vidi fu il tuo culo, poi i tuoi occhi stralunati, che in dodici anni ho imparato a conoscere così bene. Ti avevano chiamato col nome indegno di Gigio, che ti cambiammo subito.

Eri Stitch e lo sei sempre stato.

Il 21 entrasti in casa e da quel giorno iniziarono le quantità di foto, iniziò la vita che tu portasti con te.

Sembra così lontano, tante cose sono cambiate qui, ma solo tu eri sempre lì con me.

Ricordo ai tempi gli agguati che facevi alle gambe di Manu per attirare l’attenzione.

Ricordo la prima settimana, in cui ogni notte mi leccavi la testa.

Ricordo il tuo tuffo nell’acquario, quando pensavi di scaldarti sul coperchio, ma il coperchio non c’era.

Ricordo quando ti venivi a mettere in braccio mentre ero in sedia a rotelle, perché per te era una posizione perfetta per riposare.

Ricordo i giochi distrutti, quelli ignorati, le infezioni all’occhio. E le strisce di cui eri protagonista. E l’uccellino che sapemmo mai chi aveva ucciso, se tu o Zen.

E il tuo essere tanto bonaccione da accogliere Zen e Poldo senza battere ciglio.

E le pose assurde mentre dormivi e le scatole in cui dormivi. E l’infilarti sotto le coperte per il freddo.

E il cedere alla forza di gravità quando volevi sdraiarti.

E il tuo fare le fusa che ti faceva sembrare un trattore, oppure il modo in cui russavi quando dormivi.

Come cazzo li riassumo dodici anni in poche righe di merda, Stitch?

Come metto in un post tutto ciò che sei stato?

Ogni scelta in questa casa o nella mia vita è stata fatta anche in funzione tua. 

“Prendo il treno domani, così oggi sto con Stitch”.

“Non esco stasera, sono uscito anche ieri, non voglio lasciarlo solo troppe sere”

“Se metto quel mobile, lui poi non riesce a salire sulla scrivania, non voglio fargli questo torto, gli piace troppo”.

“Stasera, quando torno, vedrai le miagolate di lamentela perché sono stato troppo fuori”.

La scaletta. Non saltavi più, per cui la scaletta. Hai imparato subito a usarla. Era perfetta.

Per le gattaiole hai impiegato di più, prima dovevano sembrarti delle ghigliottine, poi hai iniziato a godertele. Anche qualche giorno fa, giusto per pochi minuti. Stavo scrivendo “ora” invece di “poi”. Ma non c’è più ora. Ora non ci sei più. Ora ho le gattaiole ma non te.

“Non voglio lasciarlo solo”, ma adesso tu hai lasciato solo me e io, senza di te, non so più bene come si vive.

Ci ho provato, tesoro. Eri terrorizzato e io non ti ho protetto. Ti ho detto che sarebbe passato. Sbagliavo. Scusami.

Scusami.

Scusa se ci sono stati giorni in cui non ti ho coccolato abbastanza o ti ho urlato o mi sono lamentato delle zampate in faccia o delle miagolate per la pappa.

Scusa se non ti ho spazzolato quanto avrei dovuto o se ti prendevo in giro per il peso.

Scusa se a volte ti ho fatto scendere di dosso.

Scusa se a volte mi arrabbiavo per i piccoli morsi che davi. Lo so, lo facevi perché mi volevi bene. È che mi facevi male. Ma ora come faccio?

Scusa se sapendo che potevi essere malato ho iniziato a temere di dover vivere lo stesso incubo di Zen. Questo incubo è anche peggiore, piccolo mio. Anche peggiore.

Scusami.

Io non lo so come potrò non sentire più il profumo del tuo pelo. Era tuo, unico.

Non so come sarà non vedere che mi guardi in faccia miagolando per la pappa.

Non so come sarà non sentirti più poppare sul mio braccio con foga. L’hai fatto due mattine fa, cazzo. Due mattine fa.

Non so come sarà non vederti più dare testate contro gli spigoli nei tuoi balletti acchiappa coccole.

Non so come sarà non averti addosso sul divano, col tuo peso spalmato e la zampa su un occhio.

Non so come sarà dormire senza che mi svegli per le coccole o il cibo o perché hai vomitato una palla di pelo in corridoio.

Non so come sarà non averti a strusciarti mentre sono in bagno.

O le coccole muso contro muso.

Ogni istante che passa c’è un nuovo qualcosa che non ci sarà più, che va via con te. E se mi girerà ne scriverò ancora, aggiungendole quando mi vengono in mente perché è giusto così.

Non so come sarà lavorare senza te che decidi che vuoi le coccole e mi copri la tastiera. Che mi sposti i monitor andandoci addosso. Mi hai anche fatto saltare la wifi, un giorno, così.

Balle.

Lo so, invece.

Farà schifo.

Perché senza di te non può che fare schifo.

Io non riesco a dirti addio. Non ce la faccio. Passo dalla rassegnazione alle lacrime in pochi minuti.

Stamattina ho messo via alcune tue cose, perché vederle mi fa male.

Solo che tolte le tue cose rimane il vuoto, perché qui dentro, senza di te, c’è il vuoto.

In me c’è il vuoto, ora.

Sopravviverò, lo so.

Ma io non volevo sopravvivere, io volevo vivere ancora un po’ con te.

Volevo te ne andassi nel sonno, di vecchiaia, non così.

Non così.

E invece niente. 

“Almeno ho Stitch”.

Non più.

Sono solo ora. Non ci sei più.

Il mio compagno di vita non c’è più.

Devo accettarlo, finite le lacrime.

Ma non so se ne sono capace.

Avrei bisogno ci fossi tu a consolarmi, come hai fatto quando non c’era più Zen.

Addio, piccolo mio.

Grazie di avermi amato più di quanto io probabilmente abbia mai dimostrato a te.

Grazie di avermi dato questi dodici anni di vita.

Avevo ragione, non sono capace di raccontare ciò che sei stato. E posso mettere anche il doppio delle foto, ma non ti renderò giustizia. Scusami, anche di questo.

Addio, Stitch.

Saluta Zen, Rooney, Lupo, Lucky e gli altri. Ma tu, piccolo, tu sei stato il mio gatto. Il mio gatto. Per dodici anni.

Addio, tesoro mio.

Neanche questo post riesco a chiudere. Non è abbastanza, non sembra abbastanza. Non lo sarà mai.

Mi manchi.

Mi manchi.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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