Marvel’s Inhumans: Come sprecare un’occasione
irca tre anni fa, durante un grande evento, Marvel annunciò i film che avrebbero composto la fase 3 del suo universo cinematografico: tra questi, previsto per il 2 novembre 2018, c’era a sorpresa “Inhumans”, per la gioia di tanti fan.
Se le vicende avessero seguito il corso previsto, non staremmo qui a parlarne, dato che siamo serialfreaks e non moviefreaks, ma così non fu: a causa del ritorno a casa di Spider-Man e di diversi cambiamenti organizzativi, l’annunciato Inhumans sembrò inizialmente passare nel dimenticatoio per poi venire riciclato come serie tv per ABC.
Le premesse, nonostante la nascita burrascosa, c’erano tutte: avevamo storie originali avvincenti, un punto di vista sull’universo Marvel molto diverso da quando già mostrato e, sembrava, una valanga di soldi investiti nella produzione, con tanto di accordo con Imax per la trasmissione dei primi due episodi in cinema convenzionati.
Quando, poi, durante il casting e la successiva produzione, cominciarono ad arrivare notizie e immagini ci fu l’impressione che la scelta degli attori fosse, almeno dal punto di vista della somiglianza, piuttosto azzeccata: Anson Mount (Black Bolt), Selinda Swan (Medusa) e Isabelle Cornisch (Crystal) hanno una buona somiglianza con le controparti cartacee e la presenza di Iwan Rheon (il Ramsay Bolton di Game of Thrones, per capirci) pareva garantire la possibilità di una recitazione più che degna.
Cosa sarebbe mai potuto andare storto?
Col senno di poi l’unica risposta che possiamo sentirci di dare è: praticamente tutto.
Ma andiamo con ordine.
Di cosa parla Inhumans? Chi segue Agents of Shield sa che sulla Terra esiste una razza ottenuta a partire da manipolazione genetiche a opera di entità aliene: gli Inumani. Nati con un patrimonio genetico diverso, l’esposizione a una sostanza definita “Nebbia Terrigena” scatena una mutazione e conferisce a ognuno di essi un particolare potere, differente di volta in volta.
In Agents of Shield avevamo incontrato una popolazione di Inumani che viveva isolata e abbiamo poi scoperto che molti loro discendenti vivevano in mezzi agli esseri umani; quello che non era stato detto era che, invece, il nucleo originale di tale popolo aveva da tempo abbandonato la Terra per rifugiarsi sulla Luna, protetti da una cupola ipertecnologica in una città di nome Attilan.
Inhumans si focalizza, quindi, proprio su questo popolo, organizzato in caste e governato da un re e una regina, i Black Bolt e Medusa precedentemente citati.
Le caste, così come ci vengono raccontate, sono oggettivamente ben poco gradevoli: qualunque Inumano che, durante la terrigenesi, non acquisisca poteri utili viene senza batter ciglio mandato – letteralmente – a lavorare in miniera.
Comprensibile che un po’ di malcontento serpeggi, un malcontento cavalcato – guarda caso – dal fratello del re, Maximus (Iwan Rheon), l’unico inumano così sfortunato da essere convertito in umano durante la terrigenesi e con un’invidia e sete di potere cui neanche Macbeth potrebbe reggere il confronto.
Come si noterà, quindi, i temi necessari per costruire una buona trama c’erano e le possibilità di un degno approfondimento erano a piena disposizione. Purtroppo, però, sono rimaste tali.
La sceneggiatura si dipana in otto episodi in cui i personaggi fanno a gara nel tenere comportamenti irritanti, fuori luogo e, cosa più grave, immotivati: in molte situazioni, soprattutto verso il finale, ci sono cambiamenti di atteggiamento da una scena all’altra spiegabili solo immaginando lo sceneggiatore che dice “è così perché ho deciso così”; le pecche, però, sono ovunque: una società ipertecnologica che, però, rimane stupita davanti a un cellulare, individui che tengono costantemente sott’occhio la vita sulla terra ma che non sanno come funziona un bancomat, persone che chiamano la polizia perché “c’è un cane alieno gigante” e vedono la polizia accorrere immediatamente senza neanche metterne in dubbio la veridicità.
Scrittura che viene poi ulteriormente penalizzata da un montaggio che spesso sembra creato apposta per dimostrare cosa non andrebbe fatto.
Abbiamo un’ambientazione come quella delle Hawaii e non riusciamo quasi mai ad avere un campo lungo che la sfrutti a dovere, abbiamo una scena in cui Maximus un istante prima si trova in una stanza a riflettere e riposare – con tanto di guardia fuori dalla porta a proteggerlo – e quella successiva in cui è altrove, ad azione svolta, senza spiegazioni di come e quando lo stato sia cambiato.
Potremmo andare avanti per paragrafi e paragrafi, così come potremmo iniziare a menzionare i tanti dialoghi insulsi che vengono proposti (“non sei più una bambina” “lo so” o anche “mi hai baciata!” “sì”), ma abbiamo un po’ di quel pudore che evidentemente è mancato a chi ha scritto gli episodi.
Ovvio, a questo punto, che anche un attore di talento come Iwan Rheon possa fare ben poco: se i testi sono improbabili, il montaggio sbagliato e i colleghi non certo all’altezza non si riescono a ottenere miracoli e, anzi, si ha certe volte l’impressione che ci fosse la volontà di terminare tale strazio il prima possibile.
Ma, si penserà, una serie così costosa, con un budget elevato, pur non avendo una scrittura all’altezza avrà quanto meno delle location e degli effetti speciali impressionanti, giusto?
Di nuovo la risposta è: purtroppo no.
L’unica location veramente meritevole è data dall’isola delle Hawaii in cui si svolge metà della vicenda e, al riguardo, non possiamo certo dire che non sia un belvedere, fatti salvi i problemi di montaggio e fotografia già citati.
Ma poi abbiamo Attilan, la città sulla Luna, che sembra estratta da una vecchia serie di Star Trek o di Doctor Who (quello degli anni ’60, sia chiaro): fondali posticci e ridotti all’osso contornati da statue di cartone e alcuni pilastri sono praticamente tutto ciò che ci viene mostrato di Attilan.
E gli effetti speciali, poi.
Medusa, uno dei personaggi più importanti, ha un potere molto particolare: i suoi capelli si muovono come fossero arti, dotati di controllo, precisione e forza; come si può immaginare, rendere un potere del genere è piuttosto complesso e costoso, per cui la produzione ha trovato una soluzione geniale: nella seconda metà del pilot Maximus rapa a zero Medusa.
Esatto. Toglie a Medusa l’unica caratteristica che la rende interessante, fatta salva una superbia che – effettivamente – potrebbe essere considerata un superpotere a parte.
Oppure Lockjaw, il gigantesco cane con poteri di teletrasporto: in sé è un piacere da guardare, peccato che ogni volta si trovi in scena con qualunque altro personaggio sia evidente la sovrapposizione d’immagini, un po’ come quando in vecchie serie tv capitava che un attore interpretasse due gemelli o sosia; l’eccesso di approssimazione è evidente in queste situazioni: quando un attore è in scena col cane, sembra sempre guardare nel punto sbagliato o trovarsi quasi costantemente in posizione errata rispetto a quella dell’animale.
Possono sembrare pignolerie, ma si tratta di errori grossolani accettabili forse per una serie low cost, non certo per quella che doveva essere una sorta di colossal supereroistico.
Non menzioniamo, poi, le contraddizioni narrative rispetto a Agents of Shield che, pur presenti (non ultima il modo in cui agiscono le nebbie terrigene), perdono quasi di importanza rispetto a quanto detto.
Avremmo davvero voluto farci piacere questa serie. Non aspiravamo a un capolavoro, ci saremmo accontentati di un Agents of Shield con più soldi e una trama più fedele agli Inumani originali.
Quello che ci è stato dato, invece, è un prodotto in cui nessuno ha sembrato credere, in nessuna fase della produzione: un’occasione sprecata sotto ogni punto di vista che, ci auguriamo, non verrà reiterata per una seconda stagione.
L’amarezza rimane nel sapere che, con tutta probabilità, personaggi come Black Bolt, Medusa, Gorgon e gli altri non potranno mai più avere una degna giustizia al di fuori dell’universo cartaceo.
Un peccato.