The Man In The High Castle. Season 2 Recap: l’importanza delle scelte

Adattare un romanzo di Philip K. Dick significa esporsi a rischi enormi: chiunque ami le opere dell’autore sa, infatti, quanto la sua produzione sia fortemente stratificata, al punto che la vera e propria vicenda è spesso accessoria alla struttura sottostante e al messaggio più o meno velato in essa racchiuso; nei suoi libri, sostanzialmente, spesso non è la storia in sé a essere importante, bensì tutto ciò su cui costruisce: ambientazioni, immagini e situazioni sono centrali dove i personaggi e le loro vicissitudini finiscono per essere secondari.
Questa premessa è fondamentale per comprendere come la trasposizione di un lavoro di Dick non possa in alcun modo limitarsi ad adattare le storie in esso contenuto, ma debba forzatamente aggiungere del proprio per essere adeguata a un medium quale quello televisivo o cinematografico: lo stesso Blade Runner, innegabilmente il maggior capolavoro ispirato a un suo lavoro, ha modifiche e integrazioni in trama e personaggi che lo rendono, senza dubbio alcuno, un’opera ben diversa dal romanzo originale.

Il risultato, nella prima stagione, era stato più che soddisfacente e il mondo raccontatoci da Spotnitz aveva le giuste dosi di realismo, di senso di angoscia e di mistero necessari ad appassionare lo spettatore, con un colpo di scena finale che lo lasciava spiazzato e curioso di comprendere quale direzione sarebbe stata intrapresa nel seguito; una direzione che non ci è data conoscere, non quanto meno secondo le intenzioni originali, dato che Spotnitz ha abbandonato il ruolo di showrunner a metà della seconda stagione e che Amazon ha deciso di non sostituirlo, lasciando che la writers’ room nel suo insieme si occupasse di terminare la produzione, scelta opinabile che ha pesato nel risultato finale.

Vecchie conoscenze

La seconda stagione ha un sapore molto più corale e lo lo spazio dedicato a Juliana e Joe, protagonisti quasi assoluti nella precedente, si è ridimensionato a favore di alcuni comprimari.
Chi ne risulta maggiormente penalizzato è Joe, il cui ruolo perde velocemente significato, importanza e profondità; nella prima stagione avevamo un giovane uomo tormentato tra il senso del dovere e il desiderio di fare la cosa giusta, al punto da portare Juliana a credere in lui dopo averne scoperto le menzogne: qui, dopo alcuni episodi in cui sembrava essere fedele a se stesso, si trasforma velocemente in una sorta di guscio vuoto senza sostanza e personalità, facilmente manovrabile e mosso soprattutto dal desiderio di rivalsa e dal bisogno di appartenenza. La spinta morale che gli aveva donato valore diventa così velocemente una facciata sbiadita dietro la quale si intravede ben poco: da metà stagione in poi ci troviamo davanti a un personaggio sprecato, il cui scopo finisce per essere solo quello di fare da ponte verso quel Reichsminister Heusmann (un Sebastian Roché sempre estremamente inquietante) necessario per lo svolgimento della trama conclusiva.

Di Frank Frink spicca come caratteristica principale la rabbia. Frank è costantemente furioso: verso Juliana, colpevole secondo lui di aver tradito la sua fiducia, poi alternativamente verso la Resistenza che l’ha manipolato a proprio piacimento e addirittura verso Ed, che pur avendogli salvato la vita gli ha mentito con lo scopo di proteggerlo.
Frank si aggrappa alla rabbia, rendendola il suo unico strumento per sopravvivere e andare avanti, lasciandosene accecare al punto da essere pronto a sacrificare persone che, nei suoi confronti, hanno mostrato solo gentilezza. Il percorso di Frank in questa stagione, fino alla sua naturale e prevedibile conclusione, è tutto nel tentativo di gestire e incanalare la rabbia per ciò che gli è accaduto, gli è continuato ad accadere e, in diversi casi, ha lui stesso contribuito a far avvenire: Rupert Evans, nel ruolo, è molto bravo nel compito di trasmettere il carico emotivo del suo personaggio, nel raccontarne gli sconvolgimenti emotivi e nel farne comprendere le scelte, anche quello meno condivisibili.

Dopo aver incontrato Hawthorne Abendsen, il famoso Uomo nell’Alto Castello, e aver scoperto più di quanto volesse e meno di quanto sperasse, Juliana si trova in fuga da tutti: dai Giapponesi, che la ritengono un pericoloso membro della Resistenza, ma anche dai Ribelli che la vogliono morta in quanto colpevole di tradimento, avendo lei lasciato fuggire Joe con uno dei preziosi film invece di permettere che venisse assassinato a sangue freddo.
È proprio l’incapacità di Juliana a venire a patti con la propria morale a portarla a fare scelte sempre più azzardate e, proprio per questo, di successo: dal cercare rifugio nel Reich ad avvicinare l’uomo che Abendsen le ha fatto ricordare, dall’accettare di stringere legami con John Smith e la sua famiglia, al rifiutarsi di condannare a morte un ragazzo pur di colpire il terribile padre.
Frank abbraccia, dopo i primi tentennamenti, il concetto di “male minore” e “perdite accettabili”, Juliana no e questo le dà la forza che a Frank manca e la porta a fare, senza saperlo, l’unica scelta veramente importante.

Il bene che è in te, Juliana. Un gesto altruista di amore e speranza. Ecco su cosa ho puntato.

Gli altri

Sono i personaggi non principali o addirittura antagonisti a fornire in questa stagione gli spunti più interessanti, a partire dal succitato John Smith di Rufus Sewell, diviso tra il suo ruolo di Obergruppenführer e quello di padre di famiglia, pronto a tutto pur di difendere i propri cari.
Sewell riesce a rendere credibile sia l’innegabile crudeltà del suo personaggio che la sua umanità ed esemplare, da questo punto di vista, è il finale del terzo episodio, quando Smith dovrebbe decidersi a uccidere il suo stesso figlio, inadatto a vivere secondo le leggi del Reich: negli occhi di Sewell vediamo, in pochi istanti, passare tutte le emozioni di Smith, in una scena emozionante nonostante la sua assenza di parole e azioni o, al contrario, proprio per questo.

Sul fronte orientale, la controparte di Smith, l’ispettore capo Kido (Joel de la Fuente) si dimostra altrettanto ben costruito; un personaggio che, all’inizio della prima stagione, sembrava essere solo un crudele rappresentante del potere, finisce per mostrare una serie di sfaccettature che lo definiscono con dettaglio crescente: se in Smith la famiglia è l’amore più forte, l’unico che può superare la sua fedeltà al Reich, in Kido abbiamo un uomo totalmente votato alla protezione dell’impero, al punto da essere pronto a sacrificarsi personalmente in più di un’occasione; Kido non disprezza i sentimenti che definiremmo più umani, ma nella sua scala di valori questi devono venire dopo l’amore per l’impero e il dovere di proteggerlo: lui sa che certe scelte sono opinabili se non, come nel caso della sorella di Frank, abominevoli, ma accetta di farsene carico per quello che ritiene il bene più grande.


Tutto è sacrificabile, agli occhi di Kido: la sua vita in primis; quando Smith gli proporrà di aiutarlo a salvarsi nel caso i loro tentativi di evitare una guerra fallissero, Kido risponde che i loro contatti sono volti solo a salvare i rispettivi paesi, non loro stessi.
Non è un personaggio positivo, non potremmo mai definirlo tale, ma è un personaggio complesso e con un proprio senso dell’onore, coerente nel perseguirlo.

Il senso dell’onore e della responsabilità è quanto guida anche il Ministro del Commercio Tagomi (Cary-Hiroyuki Tagawa), il personaggio probabilmente più positivo dell’intera serie; Tagomi scopre di essere in grado di viaggiare in un altro mondo, il nostro mondo, e si trova a vivere la vita che avrebbe potuto avere: sua moglie e suo figlio in vita, una nuora (la cui identità potrebbe sorprendere o lasciare perplessi), un nipote. Tagomi potrebbe avere tutto per sempre, ma il suo onore non gli permette di restare: è sua responsabilità tornare indietro per salvare il suo mondo usando lo stesso mezzo da cui è partita la serie, un filmato che mostra un’altra realtà.
Tagomi è la rappresentazione dell’uomo che ha imparato e impara dai propri errori, che non cerca scusanti né scorciatoie, che riconosce la felicità perduta e quella conquistata, ma che sa anche metterla da parte per un bene più grande: un bene che se per Kido è l’Impero, per Tagomi è la non distruzione di milioni di vite.

– Se moriranno innocenti, non sarà stata opera sua
– Quando moriranno, sarà perché ho fallito nell’impedirlo

Un’ultima menzione per un paio di personaggi secondari: Ed (Dj Qualls) e Childan (Brennan Brown). Poco più che comparse nella prima stagione, il loro ruolo cresce regalando anche alcuni momenti leggeri, forse non adatti alla serie, ma ben recitati e gradevoli. Ed, in particolare, assume il ruolo di controparte positiva rispetto al viaggio nell’oscurità di Frank: l’amico rimane sempre fedele, sempre pronto al sacrificio, sempre disponibile al ruolo di salvagente e di grillo parlante di Frank, rischiando di pagarne il prezzo estremo. Ed è amico fedele di Frank e Juliana e, si suggerisce, innamorato in silenzio di lei, un amore mai espresso e forse per questo più forte di quanto potremmo intuire.

Luci e ombre

Visivamente la serie mantiene gli standard della stagione precedente, con un uso sapiente delle luci e delle ombre: il mondo privato di Smith e del Reich Americano è sempre piuttosto luminoso, dove quello Berlinese risulta più patinato e gli ambienti sulla costa orientale meno definiti o più opprimenti. I momenti più scuri sono dedicati alla Resistenza, a evidenziare in modo non troppo sottile il suo costante muoversi nell’ombra, e, per ovvia associazione e necessità, alle scene ambientate negli uffici del Reich e dell’Impero.
Quella che invece finisce per essere fin troppo claudicante è, però, la narrazione vera e propria, che mostra frequentemente la mancanza di una guida comune e di un percorso definito: in troppi momenti si ha la sensazione che gli sceneggiatori non avessero ben definita la direzione da dare a un personaggio o la via per far convergere le varie storyline, optando così per far muovere i personaggi  in modo ingenuo, azzardato o fuori contesto; ci sono azioni e scelte che vengono messe in atto senza veri motivi validi, perché dev’essere così e questo svuota la qualità narrativa.
Per fare un esempio: il pregio di mostrare nella serie una Resistenza composta da individui tutt’altro che moralmente impeccabili non è un contrappeso sufficiente alla scelta di avere un personaggio come quello di Gary (Callum Keith Rennie), una scheggia impazzita senza regole e senza logica che in nessun momento viene redarguito per il proprio comportamento; ovviamente le sue azioni sono propedeutiche allo svolgimento della trama legata a Juliana, ma proprio questo rende la scelta più grave: aver bisogno di un personaggio e di situazione al limite della credibilità per far avanzare la storia significa aver problemi di base nell’intreccio.

Di Joe abbiamo già parlato, ma va sottolineato come nel giro di pochi episodi si scordi del figlioccio lasciato a New York, si consoli facilmente della perdita di Juliana e si leghi a un uomo che rappresenta in modo evidente ciò che fino a pochi giorni prima affermare di detestare. Un personaggio che aveva enormi potenzialità trasformato in breve in un manichino bidimensionale, con buona pace del pilot della prima stagione.
Ancora ci si potrebbe dilungare nel citare discutibili scelte di sceneggiatura, una per tutte l’eccessiva libertà di movimento di Juliana per le strade del Reich, ma la più evidente riguarda l’utilizzo del personaggio di Abendsen e dei suoi filmati: ci sono personaggi che funzionano meravigliosamente se lasciati nell’ombra, raccontati ma mai visti, al massimo intravisti; quando vengono svelati ed entrano in gioco, il rischio di sminuirne il valore è enorme ed è esattamente quello che avviene con l’Uomo nell’Alto Castello, che ci viene mostrato nel primo episodio, scompare quasi dimenticato per l’intera stagione e ricompare nell’ultima con un espediente narrativo fin troppo vicino all’utilizzo di un Deus Ex Machina e una scena sul finale che, se non adeguatamente spiegata nella terza, smonterà completamente le basi dell’intera serie.
Se vogliamo, il problema di questa seconda stagione risiede nell’incapacità di replicare le sensazioni e l’equilibrio della precedente, cedendo a una maggior azione, a colpi di scena spesso prevedibili o mal gestiti e a cliffhanger gratuiti: riscontro evidente si ha nella decisione di introdurre un nuovo antagonista con motivazioni e caratteristiche appena abbozzate, ma perfetto da usare come valvola di sfogo dell’odio dello spettatore.

Non una stagione brutta di per sé: riesce sicuramente a emozionare e gli attori di supporto riempiono ciò che la scrittura lascia vuota, ma siamo di certo al di sotto delle potenzialità e delle aspettative che si potevano legittimamente avere.

La speranza è che Amazon trovi uno showrunner in grado di riprenderne le redini e portare la terza in direzione di quella qualità che la serie aveva promesso e che ha le carte in regole per raggiungere.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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