La macchina del tempo
Quando ero bambino, i miei due luoghi preferiti in cui essere portato erano il Planetario e il Museo di Storia Naturale (il che, lo so, già la dice lunga su di me). Soprattutto il secondo, che era ad accesso libero, lo amavo tanto che a volte mio padre (simpaticone) trovava scuse per non portarmici perché lui, al contrario mio, ci si annoiava parecchio.
Ricordo come fosse ieri l’emozione del vedere tutte quelle ricostruzioni di animali lontani al primo piano, così come quelle del Tanystropheus e dell’Askeptosaurus in un corriodio buio, illuminato solo dal loro diorama: era affascinante l’idea che a quei tempi, in Lombardia, potevano al massimo trovarsi rettili marini, dato che in buona parte non c’era terreno.
E poi, nella sala principale, c’era un cranio di T-Rex, qualche calco qua e là e lui, la ricostruzione del Triceratopo, quella che negli anni è diventata simbolo del museo stesso.
Ricordo l’emozione del vedere una ricostruzione del genere che, ora lo so, era stata creata negli anni 70 e che mi sembrava incredibilmente realistica: pochi ne parlavamo, ma assieme al triceratopo c’era poi un bel Pteranodonte (che troppi si ostinano e ostinavano a chiamare Pterodattilo) appeso sul soffitto di una sala di poco seguente e che, quando ne vidi un disegno su uno dei miei libri, mi fece ridere di entusiasmo.
Il Triceratopo è stato così il mio primo amore preistorico, quello che rimane nel cuore (e, lo so, per tanti altri come me) e il museo di storia naturale ha sempre avuto un posto nel mio cuore, anche quando (sfogliando i suddetti libri) mi rendevo conto che in giro per il mondo c’erano luoghi meravigliosi e magici dove si potevano vedere molti più scheletri e tantissime ricostruzioni: la curiosità e il campanilismo si scontravano pesantemente in me.
Poi, negli anni, ho iniziato a visitare quei musei. New York. Bruxelles. Londra. E ho scoperto che il mio piccolo primo amore era proprio questo: piccolo. Il confronto con le risorse disponibili negli altri era impari e l’emozione di ammirare così tanto scheletri e ricostruzioni era impagabile; Milano sfigurava, purtroppo, e non c’era nulla che potessi farci.
Non ci sono tornato per anni, finché, sabato, abbiamo deciso di visitarlo, dato che Miss Sauron non l’aveva mai visto. È stato un vero salto nel passato e sebbene di solito questa frase abbia una connotazione nostalgica, stavolta ce n’è anche una, ben più critica; purtroppo visitare il museo oggi e visitarlo 25 anni fa è praticamente uguale, a parte il fatto che oggi è a pagamento. Le sale hanno quasi esattamente le stesse distribuzioni, i reperti sono quelli (anche se, a onor del vero, si sono arricchiti di un bello scheletro di T-Rex e uno di Stegosauro) ma, soprattutto, le descrizioni non sono cambiate.
Sostanzialmente cerca di vivere di rendita in un mondo in cui di rendita non vivono quasi neanche i musei d’arte.
Camminare per il museo di storia naturale, oggi, vuol dire fare una visita non a “un museo odierno” ma a “un museo com’era concepito una volta”, cosa che si smorza lievemente solo quando vengono organizzate mostre ad hoc; ma le mostre non bastano e l’aggiungere ogni tanto qualche nuovo diorama non è sufficiente se si vuole tenersi stretti i visitatori.
Se si va a visitare gli equivalenti di Londra e New York si viene sovrastati dalla quantità di esperienze possibili, ma anche e soprattutto dalle attività disponibili per i bambini, volte all’apprendimento divertente. Lo stesso museo di Bruxelles, che non ha chissà quale collezione (fatta eccezione per i meravigliosi Iguanodonti recuperati da una vecchia tomba di bitume), riesce a valorizzare ciò che è in suo possesso in un modo che Milano si sogna.
I cartelli vanno aggiornati. Le informazioni vanno arricchite. Le esposizione vanno rese più appetibili e fresche. E il simbolo stesso del museo, quel triceratopo che scatenò il mio amore, va trattato per quello che è: un simbolo; perché, diciamocelo, come ricostruzione è ormai vecchia e poco interessante, con quegli occhi da rettile, quella pelle grigia, quella resa corporea da pachiderma. Non è più divulgativa, se non nel raccontare come una volta fosse all’avanguardia: allora togliamolo dall’angolo in cui è messo, diamogli un ruolo più simbolico, diciamo esplicitamente che la sua resa visiva è ormai inadatta ai tempi, ma che il suo valore simbolico è invece enorme. Facciamolo diventare una mascotte togliendogli il manto della perla della collezione, perché se una ricostruzione fatta più di quarant’anni fa è ancora la perla della collezione, allora la collezione ha un serio problema.
Pensate solo a questo: il museo ora espone un interessante calco di Besanasauro, il rettile che fu trovato in provincia di Varese alcuni anni fa. Quello dovrebbe essere il nuovo punto di forza, ma in realtà è in una parete, quasi nascosto, senza punti di evidenza: chi ci passa e si ferma a leggere scopre di cosa si tratta, gli altri potrebbero ignorarlo. È vero, siamo in un museo, si dovrebbe guardare tutto, ma compito del museo è anche attirare l’attenzione sui pezzi di maggiore interesse o pregio.
Spiace parlare così di un luogo che ho tanto amato, ma è proprio dall’amore che nascono le critiche: le potenzialità ci sono, basterebbe metterle in pratica e non fossilizzarsi più di quanto lo siano certi calchi in mostra.
Un’ultima cosa: spendere cinque euro per qualcosa che non è cambiato quasi per niente brucia, soprattutto pensando che Londra è gratis; spendere cinque euro senza che ti avvisino che il museo chiude di lì a un’ora brucia ancora di più. Basterebbe, di nuovo, poco: avvisare chi sta comprando il biglietto che potrebbe non avere tempo di visitare tutto; si tratta di correttezza.
Cosa celebri oggi?
In realtà celebro comunque il mio primo amore, perché non posso non ricordare che a lui devo alcune mie passioni che tutt’ora ci sono.
E celebro il ricordo della mostra di serpenti vivi che mia madre mi portò a visitare. Nel periodo della muta. Io ne fui entusiasta, lei molto meno.