La prima stesura

Sto leggendo da alcuni giorni una raccolta di brani scritti da Terry Pratchett nel corso della sua vita, tutti rigorosamente non-fiction, inclusi quelli più vicini alla sua morte  causata dal morbo di Alzheimer: si tratta di testi molto vari, qualche discorso, qualche articolo, delle prefazioni e via dicendo in questo modo; in uno di questi, Pratchett parla del processo creativo e racconta come, per lui, la prima stesura di un romanzo sia lui che racconta la vicenda a se stesso o, meglio, che scopre cosa accade ai personaggi e alla storia.

Ne parla riferendosi a un romanzo specifico che sembra sia nato “da solo”, ma comunque spiega che per lui è cosa regolare: spesso non sa esattamente ciò che scriverà, salvo poi mettersi al lavoro e scoprire ciò che dentro di lui è già presente (sì, ne parlo al presente perché è lui che racconta).

Penso che sia strano da capire per chi non ha mai scritto e mi sento quasi in imbarazzo nel dire che invece, leggendo quelle parole, mi sono accorto di annuire, sorridere e pensare “ecco, è proprio così”.

Non sono uno scrittore e non mi sento tale: al massimo mi definisco wannabe, ma sarebbe peccare di presunzione dire altro; però scrivo e cerco di scrivere storie e quello che racconta Pratchett l’ho sperimentato più volte: ne parlavo giusto con un’amica qualche giorno fa, anche lei intenzionata a scrivere, e le raccontavo di quanto questo meccanismo a volte si inneschi in modo automatico; non solo, più si scrive, più accade, motivo per cui mi arrabbio ulteriormente con me stesso quando faccio trascorrere troppo tempo tra un sessione e l’altra.

È successo anche di recente, domenica: mi ero messo a rileggere quello che avevo scritto la scorsa settimana e poi avevo provato ad aggiungere un paragrafo o due; dopo circa, non saprei, forse mezz’ora, le mani hanno cominciato a muoversi e le parole a uscire da sole, a coprire le immagine che comparivano nel cervello: non erano scene decise, non c’era nulla di deciso, eppure sono uscite, erano lì, a riempire alcune pagine. E come domenica è successo altre volte: scene che avevo programmato di scrivere in un modo che si sono rifiutate di essere così e hanno deciso di svolgersi diversamente, personaggi per i quali avevo deciso certe azioni che poi si si sono ribellati e hanno fatto di testa loro, scene che non avevo proprio pensato che hanno finito per comparire, nero su bianco, senza che potessi ribattere.

Lo so, sembra un discorso folle, sono io che scrivo, io che creo, io che decido, ma la realtà è che in certi momenti sembra non sia così e che io stia solo raccontando qualcosa di accaduto e che quando non riesco a farlo, quando mi blocco, è perché non sto riuscendo a vedere dall’altra parte
E, ogni volta, quelle parti sono quelle che preferisco, a mani basse.

Ci sono sicuramente tanti autori che hanno ben chiara l’intera scaletta di ciò che scrivono, che sanno da subito chi, cosa, come, dove e quando: per me non è così; non che non faccia ricerche, verifiche, che non pensi alla credibilità, verosimiglianza, congruenza e tutto il resto. Lo faccio, assolutamente. Ma è come se quello fosse lo scheletro su cui altro si viene a costruire e quell’altro è quella storia che vorrei tanto riuscire a terminare di raccontare entro la fine di quest’anno.

Uno sproloquio unico per dire solo una cosa: ripeto, non sono uno scrittore, non mi sento tale; ma è bello sapere che qualcosa del modo in cui scrivo mi accomuna a giganti venuti prima di me.

Piccolo peccato di ego, concedetemelo.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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