Piovono polpette
Avete mai notato quanto certi piatti, certe ricette riescano a scatenare i ricordi come forse solo alcuni profumi?
A volte si tratta di ricette che riprendono esattamente qualcosa che poteva preparare un genitore o una nonna, altre scatenano semplicemente una catena di ricordi.
Oggi, ad esempio, ho preparato delle polpette di lenticchie: quando le ho sfornate e ho assaggiato la crosticina croccante, il pensiero è tornato alle polpette che preparavano i miei.
Ora, detta così sembra banale, ma le polpette soprattutto per chi ha origini meridionali, hanno un significato fondamentale e una tradizione radicata.
Le polpette (ovviamente di carne, che ai tempi il vegetarianesimo non era neanche un’opzione) erano un momento speciale.
Tantissima carne trita, formaggio, pangrattato.
Mio padre dava loro una forma tipica allungata che non ho più visto granché in giro. Purtroppo ci mettevano anche un po’ di prezzemolo, che lì dentro non amavo, e a volte dell’aglio, ma pazienza.
E si friggevano.
Si friggevano in quantità.
In enormi quantità.
Piatti pieni di carta assorbente e coperti di polpette impilate (che poi ho sempre ritenuto poco furbo impilarle così, non è che la carta potesse assorbire per osmosi, eh?).
E mentre si impilavano era tradizione rubarle con stile.
Tipo che veniva sete, si andava in cucina a bere e, a quel punto, volevi non rubare una polpetta? Ovviamente intera, tutta in bocca e se ti ustionavi non lo davi a vedere.
Poi, se avanzavano (e per quanto buone potessero essere, la quantità prodotta implicava che per forza avanzassero), allora finivano nel sugo. E io adoravo le polpette al sugo. Pensate il dramma di dover scegliere se sfondarsi fino a morirne appena fatte o farle avanzare per averle al sugo. Sono traumi.
E poi c’era la seconda versione, se vogliamo ancora più pericolosa. Le polpettine.
Qui si apre un mondo che solo chi ha sangue del sud può capire.
Le polpettine (dimensione: un’unghia, non di più) si fanno, rigorosamente (di nuovo) fritte, per un solo scopo: finire nella pasta al forno.
E sto scrivendo pasta perché io ho scoperto che esistevano le lasagne quando ormai andavo alle elementari: prima, per me, la pasta al forno era solo una, quella che si preparava per ore in occasione di certe feste.
La ricetta prevedeva: pasta lunga (tipicamente gli ziti), polpettine come non ci fosse un domani, mozzarella, uovo sodo, prosciutto cotto, parmigiano, il tutto ricoperto di badilate di salsa di pomodoro (una cosa molto simile l’ho trovata solo anni fa in Grecia, dove lo chiamano Pastitsio, e che ho cercato per due settimane quando sono stato a Creta, riuscendo a mangiarlo alla fine solo in un ristorantino familiare in una via sperduta di Rethymno)
Ovviamente non era previsto si facessero meno di due teglie, possibilmente tre o quattro che non si poteva rischiare che qualcuno non potesse chiedere la quarta porzione, no?
E quindi le polpettine. Si producevano a secchiate. A quintalate. E si impilavano, perché poi dovevano finire nella pasta, quindi andavano preparate prima. E lì, i passaggi in cucina, si facevano per prenderne a mangiate e ficcarle in bocca. Facendo finta di niente. Con le guance gonfie. Perché la soddisfazione delle polpettine calde appena fritte che ti si scioglievano in bocca era impagabile. E ovviamente senza farti beccare, perché poi se le polpettine non fossero bastate si sarebbe scatenato l’inferno.
Ovviamente non c’è mai stata una volta che non bastassero.
Avanzavano.
E finivano nel sugo.
Oggi erano lenticchie. Erano in forno e non fritte. Erano 23 e non centinaia. Eppure la mente è andata lì. E. di nascosto da me stesso, una polpetta calda mi è finita in bocca. Ma non ditelo a nessuno, eh?