Io sono vivo, voi siete morti
Ho sempre amato Philip K. Dick.
Da quando lessi la prima volta La svastica sul sole e Cacciatore di androidi (ora, giustamente, pubblicato col vero titolo Ma gli androidi sognano pecore elettriche?) il suo interrogarsi costantemente sulla natura della realtà è stato per me motivo di domande importanti e ragionamenti mai scontati con risposte non solo imprevedibili, ma spesso introvabili o inesistenti.
Ho sempre saputo, come informazione di base, dei problemi di droga avuti da Dick, ma li ho sempre considerati come una nota di colore o poco più.
Mea culpa, indubbiamente.
Tutto questo per spiegare il modo in cui mi sono avvicinato a Io sono vivo, voi siete morti, biografia, in parte romanzata, di Dick scritta da Emmanuel Carrère.
Posso anticipare che, finito il libro, la prima sensazione è stata quella di liberazione da un peso.
Carrère porta il lettore nella mente di Dick, romanzando volutamente il racconto dei suoi pensieri senza, per certi versi, preparare il lettore a ciò che si troverà ad affrontare.
Perché Dick non era solo un uomo che ha vissuto per anni con forti dipendenze da qualunque tipo di droga orale: Dick era, fondamentalmente, un paranoico schizoide che per tutta la sua vita ha cercato di affrontare il mondo affidandosi ciecamente, o quasi, al suo strumento più formidabile e, al contempo, più inaffidabile; la sua mente.
Pagina dopo pagina incontriamo una persona egocentrica, bisognosa di amore ma incapace di andare oltre quel tipo di relazione in cui una parte e pienamente dipendente dall’altra.
Dick voleva che le sue donne dipendessero da lui, non voleva lavorassero, non voleva studiassero, voleva pendessero dalle sue labbra: era l’unico modo che concepiva per sentirsi amato e, al contempo, l’unico modo esistente per farle allontanare tutte, prima o poi. L’unica che non si piegò a dipendere da lui fu anche quella con la quale gli scontri furono più violenti e devastanti.
Ma purtroppo il problema di Dick non era solo nelle relazioni con le donne, era col mondo: dotato di enorme intelligenza, non si abbassò mai realmente a farsi aiutare e finì per diventare una presenza sempre più ingombrante tra i pochi amici, i conoscenti, anche gli sconosciuti.
La sua spirale finì, nel tempo, per convincerlo di essere spiato dall’FBI, di essere oggetto di interesse tra i comunisti, di essere in realtà un cristiano che viveva nel 70d.c. e di essere, di fatto, nel 70d.c. fino all’autoconvincersi di essere una sorta di nuovo profeta il cui scopo sarebbe stato quello di scrivere il terzo libro della Bibbia.
I suoi romanzi non nacquero, in molti casi, come tali, ma come il suo modo di riportare ciò che riteneva essere la realtà in quel momento. Ubik, Pamler Eldrich, Valis sono tutte sfaccettature di questo suo tentativo di capire una realtà a cui non riuscì mai ad accettare di fare parte.
Difficile accostarsi a un uomo così complesso e, lo ammetto, in molti punti della lettura ho avuto la tentazione di fermarmi e di allontanarmi dall’uomo-Dick troppo simile e al contempo troppo lontano dallo scrittore-Dick da me tanto amato.
L’amarezza più grande, alla fine, nasce dal rendersi conto che una mente tanto sopraffina non sia mai stata supportata a sufficienza per trovare un equilibrio e una propria felicità o, quanto meno, serenità: Dick, per quasi tutti, era l’eccentrico con cui era divertente parlare, il tizio sopra le righe che avrebbe sempre trovato un nuovo modo di mettere in difficoltà l’interlocutore, il marpione che ci provava costantemente con qualunque essere umano di sesso femminile. Nessuno o quasi vide il Dick dilaniato che aveva bisogno di una propria strada e lui, di certo, non aiutò mai a mostrarlo.
Il sapore che d’ora in poi darò ai suoi romanzi sarà per forza di cose ben diverso, più amaro, sicuramente più inquietante.
Alcune parole, invece, sul modo in cui il libro è scritto.
Carrère ha creato una biografia atipica, in cui l’elenco dei fatti è mischiato a viaggi nella mente di Dick con interpretazioni che, onestamente, non so quanto siano da prendere alla lettera: molte sono le fonti citate, ma un tale dettaglio sui pensiero porta a domandarsi dove, realmente, siano state pescate alcune informazioni; il dubbio che si sia cercato l’abbellimento o forzata un’interpretazione è forte e fastidioso, così come fastidioso è l’intercalare, in vari punti, di aneddoti sulla vita dell’autore (Carrère, non Dick) infilati qua e là.
Così come estremamente irritante è la scelta dell’autore di raccontare per filo e per segno alcuni dei romanzi più importanti di Dick per mostrarne i parallelismi con la sua vita: se una tale scelta può essere legittima (anche se discutibile) trovo assolutamente scorretto che non venga segnalata la cosa prima di intraprendere la lettura; se qualcuno non dovesse aver letto quelle opere (e, nel mio caso, questo vale per un paio), il piacere della lettura futura ne viene pesantemente inficiato.
Si tratta di una caratteristica molto grave, per quanto mi riguarda.
Un libro che quindi mi ha lasciato con parecchio fastidio addosso, del quale non nego l’approfondimento (fin eccessivo) o l’interesse, ma che per un po’, invece di avvicinarmi al protagonista, otterrà l’effetto opposto: quello di non farmi leggere, per un po’, nulla di Dick.
E, di sicuro, di non avvicinarmi mai alla sua Esegesi, quell’opera finale su cui lavorò fino alla morte e che include praticamente ognuna delle sue convinzioni profetiche e religiose: sarebbe troppo, almeno per me.