103. Umano

Di quei giorni, di quelle tre settimane, ho un ricordo strano. Se qualcuno dovesse chiedermi come le ho trascorse non saprei dirlo se non in termini generici: ricordo male l’insieme, ricordo perfettamente certi istanti, li ricordo talmente bene da sentirne ancora il dolore.

O la rabbia.

Sì, la rabbia, perché ora posso dirlo, ci fu anche quella. Ci fu prima, ci fu durante, ci fu dopo.

Ricordo una sera o un pomeriggio (appunto, dettagli, ma non l’insieme).

Eri vagamente cosciente.

Ti lamentavi.

Mormoravi.

Ricordo di averti sentito dire “non ho mai fatto male a nessuno”.

Lo ripetevi come un mantra, come se dovesse proteggerti da come stavi.

Ed era falso.

Perché è lì la chiave.

Hai fatto del male.

Più volte.

L’hai fatto a chi era arrivato prima di me, l’hai fatto a mia madre, l’hai fatto a me.

L’hai fatto a te stesso.

E non perché tu fossi cattivo o altro.

A volte il dolore peggiore arriva da chi non vuole causarlo.

Spesso il dolore peggiore arriva da chi ci ama di più.

Non eri cattivo.

Non eri in malafede.

Eri umano.

Sbagliavi.

A volte per leggerezza, altre per orgoglio, altre per presunzione, altre chissà perché.

Sbagliavi.

Come ho sbagliato tante volte io.

E ferivi.

Come ho ferito tante volte io.

E se avessi accettato di essere umano, se avessi capito che la colpa non stava nell’aver sbagliato, ma stava nel non esserti perdonato e aver preferito far finta di niente, saresti stato meglio. Saremmo stati meglio.

Ma quella sera, quei giorni, quel che sentivo era che cercavi di convincerti.

Di non aver fatto del male.

Di non averlo fatto volontariamente, almeno (lo so, so bene che questo era quello che pensavi).

E sono certo che sentivi di non aver più tempo per chiedere scusa.

In quei momenti l’hai capito.

L’hai chiesta a me in quel letto di terapia d’intensiva dicendomi “sai, è il mio carattere, ma ti voglio bene”.

Ho pianto appena uscito da lì.

Pianto come non facevo da chissà quanto.

Perché avevo aspettato quelle parole da tanto e ora, solo ora, riuscivi a dirle.

Ho preso quelle tue scuse, le ho fatte mie.

Ho cercato di ricordarle anche dopo, quando ho dovuto risolvere tante cose. Ci è voluto tempo, lo ammetto. Ma l’ho fatto.

Le ho diffuse.

E mi sono promesso una cosa.

Che mai, mai avrei aspettato così tanto per scusarmi degli errori fatto.

Anche se involontari.

Anche se necessari.

Anche se con mille scusanti.

Perché quel dannato, fottutissimo tempo, non finisce mai quando ce l’aspettiamo.

E potrebbe essere troppo tardi.

E io non voglio che sia troppo tardi.

Per scusarmi.

Per ringraziare.

Per sorridere.

Per dire ti voglio bene.

Sono riuscito a dirtelo fino all’ultimo.

Non te l’ho detto per parecchio tempo quando ero troppo ferito, non pensando che a modo tuo anche tu fossi ferito.

Poco importa, poi, chi avesse ragione: se un “ti voglio bene” si perde nei meandri delle ferite, allora tutti perdiamo.

Ti ho detto “ti voglio bene” quella notte, prima che te ne andassi.

Non ti ho chiesto scusa.

Te lo chiedo ora.

Scusa, per non averti perdonato prima.

Ti voglio bene.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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4 risposte

  1. ziacris1 ha detto:

    Caro ,ti sono vicina, il tuo dolore è tangibile, ma sei bravo e hai fatto tesoro dell’esperienza. Un abbraccio forte

  2. Mìgola ha detto:

    Letto e riletto e riletto ancora perché pieno di saggezza e di emozione. E di verità.
    Grazie. Ti abbraccio.

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