27. Quando siete felici, fateci caso
Sto per dire una cosa che mi farà perdere probabilmente la stima di qualcuno.
Io ho un problema con Vonnegut.
Non con il contenuto dei suoi libri (almeno di quelli che ho letto, ovvio).
Con il suo stile.
Faccio fatica, dopo un po’, a seguirlo, a seguirne i fili logici, a farmi avvolgere da ciò che scrive, nonostante poi ciò che scriva sia contenutisticamente condivisibile se non ben oltre.
Stesso problema (e qui altra stima persa) che ho con Foster Wallace, per dire.
In questo caso, poi, si aggiunge che questa raccolta non è mai stata “scritta”: sono discorsi tenuti soprattutto nelle università e sono nati per essere espressi a voce; leggerli fa perdere la mimica, l’espressione del viso, il tono della voce. Li svuota di parte del loro messaggio.
Così mi sono trovato a leggere questi testi con sensazioni contrastanti: da una parte l’importanza del messaggio trasmesso, spesso più che condivisibile, dall’altra il non apprezzare il modo in cui mi è stato trasmesso.
Leggevo delle recensioni e ne ho vista una di una persona che ha avuto modo di assistere a uno di questi discorsi e ha confermato esattamente la mia impressione: splendido e importante dal vivo, più ostico in lettura.
Ma non voglio far passare il messaggio che il libro non meriti, perché invece ciò che cerca di comunicare è sicuramente importante, anche se non lo si dovesse condividere del tutto.
Vonnegut era arrabbiato. Arrabbiato con ciò che l’America era diventata, arrabbiato verso le amministrazioni presenti e passate, arrabbiato perché non vedeva più l’essere umano al centro delle preoccupazioni, se mai c’era stato.
Così più volte, nei vari discorsi, si è scusato col pubblico giovane di ciò che avrebbero trovato, ma ha anche ammesso che lui stesso non è che avesse trovato di meglio.
E si è raccomandato di cercare di essere brave persone, di non essere finti religiosi, di creare una comunità, di gustare il momento.
Per dirla a modo suo “di essere buoni, cazzo”.
La parte migliore del libro è forse l’ultima, dove vengono estrapolate le frasi più significative dei suoi discorsi presenti nel volume o altrove (confermando, di nuovo, la mia impressione iniziale).
Sono d’accordo con lui?
Sì e no.
La rabbia di Vonnegut è quello di un uomo di ideologia che ha visto queste o altre ideologie distrutte, stravolte, schiacciate: la rabbia che prende un uomo ormai anziano vedendo che non è cambiato nulla e, anzi, tutto è peggiorato.
Non sono mai stato ideologico nel suo senso e quindi non riesco a provare questo senso di tradimento: provo rabbia, sì, verso tutto ciò che trovo disgustoso nel mondo di oggi e, lo ammetto, spesso penso non ci sia più via d’uscita. Però non mi trovo nel suo dire “Ehi, non guardate me, sono appena arrivato anch’io” detto come gioco ai suoi nipoti. Non è vero. Perché è esattamente dire “non guardate me” che ci ha portati dove siamo ora. Non siamo responsabili della situazione, lo siamo del non fare nulla per cambiarla.
In realtà lui ha cercato di fare molto per cambiarla, raccontando e mostrando.
Ma l’amarezza si sente e non sono sicuro che la speranza venga trasmessa bene se velata dall’amarezza.
Preferisco di molto chi ha il coraggio di dire “ecco il mondo, noi siamo stati incapaci. Siate migliori di noi”.
Una cosa del genere.
Si tratta comunque di posizione personalissima su un libro che penso vada letto e giudicato in autonomia.
E solo il fatto di farmene scrivere tanto la dice lunga su quanto fosse importante il pensiero di Vonnegut.