L’uomo che sapeva troppo

Alan Turing è entrato nella mia vita piuttosto presto, come in quella di qualunque informatico.
Chiunque abbia studiato programmazione avrà affrontato durante i suoi primi passi la famigerata “macchina di Turing”, amore e odio (più odio che amore, in tutta onestà) di un sedicenne interessato a entrare nel vasto mondo della programmazione di software.
Della sua vita privata non sapevo niente e sono rimasto nell’ignoranza letteralmente per decenni, fino a quando non ho avuto notizia del perdono reale ricevuto dal genio matematico neanche un anno fa: da allora mi rimase il tarlo di sapere di più dell’uomo Turing e, quando alla Fiera del libro di Torino, ho trovo “L’uomo che sapeva troppo” di David Leavitt non me lo sono lasciato scappare.
Questa lunga premessa per cercare di spiegare il motivo per cui sono rimasto parzialmente deluso dalla biografia.

Leavitt ha fatto molte ricerche, senza alcun dubbio, e ha evidentemente preso “sotto la propria ala” la memoria di Turing e, soprattutto, l’aspetto della sua omosessualità obbligatoriamente repressa.
Il problema è che l’autore ha deciso di usare tale aspetto come chiave di lettura anche di molti elementi nel campo di ricerca del genio, scelta che risulta, onestamente, forzata e fuorviante,
Poco spazio viene dato all’evidentemente molto stretto rapporto con la madre, poco al suo quotidiano, molto alle interpretazioni.
Potrebbe poi essere considerato ammirevole lo sforzo dell’autore di spiegare il lavoro di Turing, ma il problema è che per farlo bisogna essere adeguatamente ferrati in materia (e, in questo caso, alcuni errori di traduzione non aiutano), cosa che Leavitt non è e, soprattutto, bisogna stare attenti a non esagerare: avere diversi capitoli pieni al 70/80% di spiegazioni matematiche non solo relative al lavoro di Turing ma anche a quello di altri matematici con cui lavorò o si scontrò non aiuta certo a immergersi nella storia di un uomo che, potenzialmente, potrebbe essere molto più interessante.

E nonostante questi difetti, la figura di Turing comunque viene fuori.
Durante la lettura sono riuscito più volte a immaginarmelo con una sorta di “Sheldon Cooper della vita reale”, svuotato del lato comico.
Una persona geniale ma solitaria, non tanto (o non solo) per la propria sessualità (che ai tempi, in Gran Bretagna, era illegale) ma soprattutto per la propria mente.
Una persona che prendeva tutto alla lettera e non riusciva a comprendere le sfumature dei rapporti umani, che voleva capire come facessero a crescere la margherite, che veniva frustrato dalla filosofia perché esulava dalla pratica e dalla realtà.
Un uomo che inseguiva la propria curiosità, che si lanciava in imprese di ricerca apparentemente assurde o improbe per il solo gusto di risolverle e, una volta trovata la chiave, se le lasciava alle spalle pronto a nuove sfide.

Un matematico che, incapace di inquadrarsi nei meccanismi classici di ricerca, finiva sempre per ottenere meno riconoscimenti, meno luce, meno stima di quel che avrebbe meritato.

Tutti questi aspetti traspaiono.
Avrei preferito fossero centrali.

Non una bocciatura totale, assolutamente, ma di sicuro da affrontare con meno aspettative di quante ne avevo io.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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