Una cosa divertente che non farò mai più
David Foster Wallace.
Bella testa, eh? Non c’è che dire.
Cervello funzionante, occhio critico, capacità analitica, invidiabile proprietà di linguaggio e analisi.
Simpatico, certo, nella sua voglia di criticare esagerazioni, cliché e pure se stesso.
Però.
La quarta di copertina recita “il capolavoro di comicità e virtuosismo stilistico con cui i lettori italiani hanno conosciuto il genio letterario di David Foster Wallace”.
E tutti, ovviamente, a dire che è un capolavoro.
Di comicità.
Ecco, si vede che sono ottuso io. O che non conosco la comicità. O sa il cavolo cosa.
Fatto sta che io questo capolavoro di comicità non l’ho proprio trovato.
Sì, certo, ho sorriso. In qualche anche più di un istante. Poi stop.
Non mi sono sbellicato, non mi sono detto “ma come gli vengono”, anzi, dirò di più, in molti casi mi sono irritato.
Il motivo?
Le note.
Le onnipresenti, lunghissime, ramificate, nidificate note.
Io capisco che fossero la sua caratteristica stilistica.
Capisco ancora di più che la sua mente fosse tanto attiva da non riuscire letteralmente ad esprimersi linearmente.
Capisco tutto.
Ma non per questo devo farmelo andare bene.
Non per questo devo essere costretto a interrompere il filo logico della lettura in 2.534 digressioni che spesso niente aggiungono o, se lo fanno, potrebbero tranquillamente essere inserite in coda.
Ripeto, limite io, probabilmente, ma per me l’esperienza Wallace può dirsi sospesa per un bel po’ nonostante (ripeto) gli riconosca uno stile ed un’intelligenza notevoli: solo che non siamo allineati.
Succede.
Non sei (eri) tu, David.
Sono io.