Una settimana

Questo è un post assolutamente atipico e terribilmente personale, più del solito, preferisco avvisare da subito.
Atipico perché è stato scritto quasi quattro anni fa, il 28 dicembre 2008, quando avevo bisogno di mettere su carta ciò che stavo provando, per fermarlo, per ricordare sempre.
Ai tempi mi ripromisi che prima o poi l’avrei pubblicato, ma poi successero talmente tante cose che finì per rimanere nella cartella in cui l’avevo salvato.
Oggi l’ho ritrovato per puro caso e trovo sia giusto rimediare alla mancanza.
O forse  mancanza non è.
Forse è semplicemente giunto il momento di pubblicarlo.
Avrei potuto aspettare un giorno “significativo”, forse, ma no, preferisco farlo ora.
Non lo correggo, non lo edito, lo scrivo qui così come venne.

E se è “troppo”, beh, allora forse lo sono anch’io.

Solo una settimana.
Oppure già una settimana.
Non so neanch’io quale delle due frasi sia giusta, non so neanch’io quale delle due sia più mia.
Quel che so è che è passata una settimana, una settimana in cui non ho più potuto sentire la tua voce, anche se bassa anche se roca, anche se sperduta.
Una settimana.
E solo in questa settimana ho cominciato a rendermi conto di tutto quel che mi mancherà.
E’ vero, fino a un mese fa ci sentivamo solo una volta al giorno per pochi istanti, eppure ogni giorno, quando si avvicina quell’orario ed istintivamente aspetto che chiami, il ricordarmi che non succederà più è una staffilata al cuore.
Svegliarmi la mattina di un giorno di festa sapendo che verso mezzogiorno ti dovrò chiamare e poi ricordarmi che non ho più nessuno da chiamare è come spargere costantemente sale su una ferita che sanguina ancora.
E poi ci sono i ricordi, Babbo.
I ricordi del nostro passato, ma anche quelli, ancora più freschi, ancora più dolorosi, dell’ultimo mese.
La nostra ultima discussione, quando mi hai detto che fino a prova contraria eri mio padre: ricordo perfettamente la rabbia di quel momento, ricordo e so quanto era giustificata, eppure se ora potessi tornare a quell’istante ti abbraccerei soltanto e ti direi che lo so che sei mio padre e che nonostante tutto ti voglio tanto bene.
Le ultime due visite, quasi estirpate da una telefonata che ora ringrazierò sempre per esserci stata, quando vedevo chiaramente cosa ti stava succedendo eppure lo ripetevo come fosse uno spauracchio lontano, di quelli che ci diciamo per tenerli lontani il più possibile.
La nostra ultima telefonata, l’ultima di una serie in cui mi parlavi delle tue febbri ed io, idiota, pur immaginando cosa stava succedendo, cercavo di far finta di niente, di fidarmi del tuo “aspettare”.
E poi il crollo.
Tu all’ospedale.
Correre a Novara e poi deviare per Borgomanero.
Parlare coi medici al Pronto Soccorso.
Era forse meningite?
Tu che russavi su quel lettino ed io che ti guardavo con tenerezza, pensando ti fossi semplicemente addormentato; ma non era così: un’emorragia ti stava premendo da dentro.
La dottoressa che ti visitava e tu che rispondevi come fossi tanto lontano.
Aspettare una decisione.
E poi il trasporto fino a Novara.
Terapia intensiva.
Osservazione.
Quattro giorni a vederti mezz’ora al giorno.
Sentirti dire che, anche se non me lo dicevi mai, non dovevo pensare che non mi volessi bene, perché invece me ne volevi tanto.
Stringerti la mano.
Darti da bere come ad un bambino.
Cercare di non dirti che il tuo cervello aveva sanguinato.
Vederti riprendere un poco e sapere che non dovevo rallegrarmi ed arrabbiarmi allo stesso tempo perché non potevo concedermi quell’illusione.
Di nuovo a Borgomanero.
Raggiungerti nella neve.
Sentirti dire “come hai fatto a trovarmi?”.
Ma come potevo non trovarti, Babbo? Come potevo lasciarti solo?
Di nuovo aspettare che i medici pensassero al tuo fegato quasi dimenticato tranne da noi.
Passare la notte al tuo fianco, cercando di stare sveglio e di farti sentire che c’ero.
Chissà se hai sentito le mie mani sulla tua testa.
Chissà se hai sentito che cercavo di darti il mio calore per farti riposare.
Chissà se hai sentito che c’ero.
E poi giorno dopo giorno fare il possibile per starti accanto.
Vederti svegliare maledicendo il destino perché sapevo quanto avresti sofferto.
Dirti di no quando volevo dirti di sì.
Darti da bere.
Giorno dopo giorno.
Andare via due giorni pregando che non succedesse nulla mentre ero via.
E poi sabato.
L’ultima mattina insieme.
Eri stufo, comprensibilmente stufo.
Avevi sete.
Ti ho comprato l’acqua al bar.
“Bella gelata” hai detto.
Bella gelata.
Ti ho promesso che ogni giorno te l’avrei portata così fresca.
Hai annuito.
“Anche un ghiacciolo” hai detto.
Te l’ho promesso.
Non ho fatto in tempo a mantenere la promessa, Dado.
Non ho fatto in tempo.
Ti ho imboccato come facevi tu con me da piccolo.
Ti ho stretto la mano.
Ti ho detto “ci vediamo domani”.
Solo che non sapevo che quel domani sarebbe stato poche ore dopo.
Non sapevo che sarebbe stato l’ultimo domani.
Non sapevo.
Non volevo saperlo.
Un telefono nella notte.
Vestirmi.
Correre da te col solo pensiero di arrivare in tempo.
Vederti soffrire.
Dio, quanto soffrivi.
Sapevi che c’ero.
Lo sapevi.
Ma non potevo far altro che stringerti la mano, liberarti da quel maledetto laccio e dirti che tra poco sarebbe passato.
Lo sapevi, vero?
Sapevi che stava finendo?
L’avevi capito ormai.
E stavi male.
Faceva male.
Ed io provavo rabbia verso chi aveva gioito per il tuo risveglio.
Quel risveglio ti stava facendo male, Dado, ed io non potevo fare nulla se non stringerti a me.
Sudavi freddo.
Respiravi a fatica.
Sempre più piano.
Sempre più piano.
Hai sussultato, Babbo.
Non scorderò mai il tuo sussulto.
Non scorderò mai nulla.
Ti avevo promesso che non saresti stato solo.
Sono riuscito a mantenere quella promessa.
Ora però dovrò convivere con quel ricordo e non so cosa sia peggio: il dover ricordare ogni singola immagine o il rischio di perderle col tempo.
Non lo so proprio.
Ma so che non voglio dimenticare.
E so che ogni volta che ricorderò farà così male.
E so che vorrei scrivere ancora tanto e tanto di più: ogni impressione, ogni ricordo, ogni parola, ogni gesto.
Scrivere per non dimenticare, scrivere per me, scrivere per te, scrivere perché si possa capire.
Eppure scrivere non trasmetterà i momenti.
Scrivere non riporterà indietro.
Scrivere non mi farà risentire la tua voce.
Scrivere, per la prima volta, non basterà.
Niente, alla fin fine, basterà.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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20 risposte

  1. robi ha detto:

    Mi hai molto commosso! :'(

  2. wolkerina ha detto:

    Ti abbraccio forte.. no, non è troppo..

  3. giuseppe ha detto:

    …..hai riaperto ricordi amari ma ancora vivi in me… ti voglio bene sergio:-)

  4. 4p ha detto:

    Hai commosso anche me.
    Penso che il desiderio di ricordare sia già una risposta.
    Quando dentro di te senti affiorare il ricordo scrivilo dove e come vuoi tu.
    Un bacione
    4p

  5. Chris ha detto:

    Doloroso, ma contemporaneamente impossibile da smettere di leggerlo. E probabilmente anche di scriverlo.
    Big hug.

  6. BEN ha detto:

    E parecchio che non commento, anche se continuo a leggerti, ma queste parole non potevano non essere commentate
    In ognuna di esse traspare il tuo dolore, ognuna di esse è un immagine che appare nitida nella mia mente e mi fa sembrare di essere stato lì con te, di vedere il tuo dolore e non poter far niente per fermarlo.
    Con esse riesci a trasmettere chiaramente quello che hai provato mentre le scrivevi, e che molto probabilmente provi ancora ora, anche dopo quello che è successo e il tempo che è passato
    Un mega abbraccio

  7. Widepeak ha detto:

    Essere presente è la cosa più importante. Sei presente ancora, nelle tue parole. È la cosa più importante. Ti abbraccio, fiera di conoscerti un po’

  8. Emcy ha detto:

    Parole? mai, nessuna…

    :’-|

  9. Cuordicarciofo ha detto:

    Ero venuta a conoscere un po’ di te e leggo questo. Fin troppo in comune abbiamo. Tranne che per me ne sono passati 3 di anni.

    Un abbraccio

  10. Lucia ha detto:

    Solo chi ha stretto la mano di un genitore, e l’ha sentita da calda diventare fredda puo’ capire fino in fondo. Quando un genitore se ne va troppo presto è una ferita che non si rimargina mai. Brusco risveglio, bruttissimo modo per diventare adulti. Un abbraccio.
    Lucia

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