Pensieri su Munch e da Munch
Una ventina d’anni fa, in un periodo in cui ancora si usava MSN, la mia immagine profilo (il mio avatar) era l’usato e abusato “Urlo” di Munch. Ai tempi sapevo ben poco dell’artista e del quadro, ma il modo in cui esprimeva il mio stato d’animo ai tempi era tale da averlo fatto mio immediatamente. Non avevo idea, ai tempi, di quanto – appunto – abusata fosse quell’immagine e poi, alla fine, se un qualcosa sentiamo che ci rappresenti conta davvero quanto è stata utilizzata più o meno a sproposito?
Certo, oggi mi viene tenerezza a pensare a come stavo a quei tempi e al fatto che allora sentissi mia quell’immagine. Quindi ora cosa dovrei dire, mi viene da chiedermi.
Fatto sta che la scelsi e rimase con me a lungo e, negli anni, per quanto abbia sfiorato altre opere di Munch solo per caso, ogni volta c’era un qualcosa che me lo faceva sentire in qualche modo affine, pur non capendo cosa.
Era forse solo l’imprinting dell’Urlo? Possibile, ma non ne ero così sicuro, anche perché non tutti i suoi quadri esprimevano lo stesso tipo di sentimento e di disperazione.
Ieri, dopo tanti anni, grazie alla Mostra che in questi giorni è allestita a Palazzo Reale, forse ho capito. E l’ho capito non (solo) dai quadri esposti, ma dalle parole dell’artista, che non solo aveva la necessità di esprimersi per immagini, ma anche di farlo per iscritto.
“Io non dipingo ciò che vedo, ma ciò che ho visto”
Una frase che può apparire banale, ma che invece racchiude un mondo dentro di sé. A Munch non interessava rappresentare la realtà, il mondo per com’era (“ciò che vedo”), ma per come si è stratificato nella sua mente (“ciò che ho visto”). La realtà per Munch non è oggettiva, ma soggettiva, è il risultato dello sguardo, dello stato d’animo, dei ricordi, delle associazioni tra un evento e ciò che ha lasciato in chi lo ricorda. Ed è qualcosa che viviamo tutti noi, costantemente: quante volte ci è capitato di ricordare qualcosa in modo diverso da altri e di associare a quel qualcosa stati d’animo diversi? Eppure la realtà, l’evento, sono gli stessi. Ma non il ricordo, non l’immagine mentale, non la verità soggettiva.
Ecco, Munch cerca la verità soggettiva e cerca le emozioni che vengono con essa. Ciò che ho vissuto come affinità è il bisogno di mostrare le emozioni, di raccontarle, a volte anche di espellerle perché tenerle dentro può farci esplodere o consumarci. Scrivere, dipingere, creare sono modi per dare loro una forma che non ci costringa a tenerle in noi, così da poterle toccare se dovessimo desiderarle e al contempo alleggerirci del peso che possono accollare sul nostro animo.
Quando ci si trova in uno stato d’animo intenso, un paesaggio susciterà una certa impressione – raffigurando questo paesaggio si arriva a un’immagine del proprio stato d’animo – è questo stato d’animo la cosa importante. La natura è solo il mezzo.
Munch dipinge e scrive emozioni per poter sopravvivere alla loro esistenza, per poterci avere a che fare senza farsene soverchiare. Ed è uno dei motivi per cui scrivo, qui sopra e altrove. Ho testi che negli anni ho scritto e che non ricordavo di aver scritto, altri che ricordo ma che nessuno leggerà, neanche la persona per cui li ho scritti. Li ho scritti perché dovevo lasciare che quei pensieri e quelle emozioni esistessero, ma scrivere era l’unico modo per non farli macerare in me.
Ma non è solo questo ad aver tracciato una linea di connessione con Munch. Per quanto sia ovviamente criticabile per vari approcci, il suo bisogno di sentire, di assaporare, di riconoscere e andare a fondo è qualcosa che sento fortemente mio. La sua impressione che certe volte altri non vadano a osservare e percepire quanto lui.
Io che conoscevo ciò che esisteva sotto la superficie lucente non potevo unirmi a chi viveva tra le illusioni – sulla superficie lucente che rifletteva i puri colori dell’atmosfera
Sono certo che tanti si sono sentiti così in qualche momento, pronti a urlare “possibile non vediate” a qualcuno intorno a loro. Ed è anche la descrizione di ciò che Munch dice aver ispirato l'”Urlo”:
Stavo camminando per strada con due amici; il sole stava tramontando e, all’improvviso, il cielo divenne rosso sangue. Mi fermai e mi appoggiai alla staccionata preso da un’indicibile spossatezza: c’erano sangue e lingue di fuoco sopra al blu e al nero del fiordo e della città. I miei amici continuarono nella loro passeggiata e io rimasi lì, tremando per l’ansia, e percepii un urlo infinito attraversare la natura”.
Se prendiamo questa descrizione e aggiungiamo, accanto all’urlo, il suo simile “Disperazione”, che nella mia mente è quasi un prequel, il momento prima, quella fase di carico in cui ancora stiamo tenendo tutto in noi per poi esplodere quando non è più tollerabile.
Come lo capisco. Come lo sento. Anche oggi, anche in questi giorni. Quel carico che si monta dentro, che non si vede, che non viene visto, quell’urlo che vuole esplodere e forse sì, forse allora, forse sarà il momento in cui qualcuno noterà.
O forse no e rimarrà silente.
Espresso.
Urlato.
Inascoltato.