79. La Nausea
“Come giustifica la sua esistenza?”.
Era la domanda che, nei racconti di Asimov, i Vedovi Neri chiedevano al loro ospite di turno. Come giustifica la sua esistenza? Che in quel caso era un più o meno semplice ”cosa fa nella vita”, ma che espresso in quel modo significava ben altro. Dato che esiste, dato che è a questo mondo, cosa fa per giustificarlo? Per far sì che la sua esistenza abbia ragione d’essere?
A chiudere il cerchio (o forse a mostrarmi come il raggio di quel cerchio si sia incredibilmente allungato) è la domanda che trovo nella penultima pagina de La Nausea, di Jean-Paul Sartre: ”Allora, è possibile giustificare la propria esistenza? Almeno un pochino?”.
Per giungere a quella domanda ho – stavolta devo per forza di cose parlare in prima persona – seguito i pensieri di Antoine Roquentin (alter-ego dell’autore) nel suo percorso di disagio, spaesamento, ricerca e, alla fine, di apparente comprensione.
Quanto scriverò non è una recensione, non può essere una recensione, non vuole essere una recensione, vuole essere un tentativo – sicuramente parziale – di mettere insieme questo viaggio che ho fatto con lui.
Tutti esistiamo. Tutto esiste. Tutto ciò che ci circonda è esistenza per definizione. Ma se tutto esiste, significa che esistere non è un diritto, bensì l’unica condizione possibile della realtà, al punto che la non esistenza è un concetto così astratto da risultare quasi inconcepibile. Ci sono branche stesse della matematica e della fisica che non si concentrano sul trovare un qualcosa, ma sul potere dimostrare o scoprire che esiste. E se esiste, esiste da sempre, senza diritto a farlo, solo come dato di fatto.
Ma se esistere non è un diritto, allora tutto intorno a noi ha lo stesso livello di importanza, tutto è parte di un unico di cui siamo immersi e la sua essenza può finire per travolgerci, soffocarci, farci sentire un niente parte di un tutto. Darci la Nausea.
Una Nausea che più volte va a colpire Roquentin quando la sua capacità di focalizzarsi su altro viene meno, quando il suo cercare di dare uno scopo a se stesso viene annullato da qualche minima o enorme consapevolezza, quando non riesce più a mantenere quell’isolamento necessario per non essere travolto dall’esistenza di tutto ciò che lo circonda: quando avviene vengo travolto con lui dalla descrizione di oggetti, dipinti, persone, dal dettaglio minuzioso che arriva come uno tsunami e io non ho fatto in tempo a prendere abbastanza aria. Chi mi ha regalato questo libro ha detto che certe descrizioni possono in qualche modo ricordare Murakami ed è vero, ma lo scopo è incredibilmente diverso: Murakami ha una maniacalità nel volere descrivere un ambiente che, però, trasmette pace, serenità; qui non c’è nulla di tutto ciò, c’è la violenza della realtà che esiste e arriva e invade i sensi e non ha intenzione di andarsene finché non sarà stata notata e messa nera su bianco, finché la sua esistenza non sarà stata documentata a dovere.
Quando poi Roquentin cerca e riesce a mantenere il suo distacco si guarda intorno e non comprende: non comprende come la semplice esistenza sia sufficiente alle persone intorno a lui, come la reiterazione di ciò che è sempre stato non porti a disperazione, alla ribellione, alla ricerca di altro. Di come si possa illudere di essere appagati perché convinti di avere il diritto di esistere.
Ma una volta che si capisce, una volta che si vede l’insieme, ecco che tornare indietro è impossibile. Una volta che si tocca la realtà, l’attività che ci distraeva, che ci faceva illudere di avere uno scopo finisce per non avere più alcuna attrattiva. La si vede per ciò che era: un fuoco fatuo incapace di reggere al peso dell’esistenza complessiva.
Nel caso di Roquentin è la scrittura di un libro sulla vita di un morto. E come può un morto dare scopo all’esistenza di un vivo, finisce per chiedersi? Non può. Era un’illusione.
Così come sono potenziali illusioni i racconti di avventure che sembrano tali solo al passato, la ricerca di momenti perfetti che sono tali solo nella propria mente, la ricerca di un segno che rappresenterà l’inizio evidente di qualcosa di importante.
Come quando immaginiamo che arrivi una telefonata, un gesto, un segno che ci cambierà la vita, che magari è dietro l’angolo che ci aspetta, un qualcosa che identifichi immediatamente un prima e un dopo. Allora lì, forse, ci sarà uno scopo.
Ma anche quella è un’illusione, perché il presente è un istante troppo breve e definito perché qualcosa del genere avvenga.
Eppure la risposta, la potenziale risposta, è lì. È lì, nelle pieghe stesse di quell’esistenza così opprimente, lì a influenzare l’esistenza pur non esistendo più. Ed è un qualcosa che accompagna il protagonista in tutto il suo percorso, anche se non lo comprende perché non è pronto, perché anche il messaggio più chiaro e importante ha bisogno di essere ascoltato nel momento giusto.
E a quel punto la risposta sta lì, dicevo, in quelle pieghe, dove qualcosa che esisteva non esiste più eppure continua a trasmettersi, a essere percepito, a influenzare. È memoria, ma non di quella legata agli eventi del passato, bensì quella legata alla creazione, all’arte nel senso più ampio del termine, all’aver lasciato un qualcosa che, se non fossimo esistiti, non avrebbe visto la luce.
Nel fare la differenza lasciando un’impronta.
Forse, si dice Roquentin, forse così si sarà potuto giustificare la propria esistenza. Forse così si potrà tollerare quella nausea.
Ma il suo giudizio mi trafiggeva come una spada e metteva in discussione perfino il mio diritto d’esistere. Ed era vero, me n’ero sempre reso conto: non avevo il diritto di esistere. Ero apparso per caso, esistevo come una pietra, una pianta, un microbo. La mia vita andava a capriccio, in tutte le direzioni. A volta mi dava avvertimenti vaghi, a volte non sentivo che un ronzio senza conseguenze.