31. Il proprio valore
Per quanto riesca a guardarmi indietro, penso di essere sempre stato molto dicotomico riguardo al mio valore personale.
Una parte di me è consapevole di chi sono, di quanto valgo, di cosa ho fatto e conquistato, di cosa ho dovuto affrontare e superare: se vedessi un’altra persona che ha fatto le stesse cose la guarderei con ammirazione e forse anche un po’ di stupore.
Un’altra è sempre stata dipendente dallo sguardo altrui. Dall’apprezzamento di chi stimo e mi conosce. Dal bisogno di essere visto. Dalla necessità di conferme. Io valgo se qualcun altro vede il mio valore, altrimenti mi sto illudendo. Sindrome dell’impostore, ovviamente, ma non solo e me ne sto rendendo sempre più conto, grazie anche al percorso psicologico.
C’è quel bisogno di riconoscimento tipico dei bambini, quel bisogno di essere visti e apprezzati, di sentirsi dire quanto sono bravi e c’è la necessità che quel riconoscimento venga ribadito perché altrimenti magari non è più vero.
È un meccanismo che odio e con cui sto lottando, ma il primo passo è riconoscerlo, dicono.
Non è facile spezzarlo, perché significa minare meccanismi che si sono stratificati per decenni, ma è una delle fonti di dolore e instabilità maggiori che possano venirmi in mente.
Specchiarsi negli altri, cercare il nostro valore negli occhi altrui, vuol dire legarsi a una zattera con un filo di cotone e affrontare il mare aperto: certo, magari andrà anche bene e si supererà la traversata, ma se appena appena dovesse arrivare un’onda più grande rischieremmo di affogare lamentandoci che quel filo di cotone non ci ha tenuti legati abbastanza.
Non credo che sia un problema solo mio e, anzi, penso sia abbastanza diffuso, per cui condivido qui il compito che mi ha assegnato la psicologa e su cui mi concentrerò nei prossimi giorni: parlare delle mie conquiste, di ciò che ho fatto e ho ottenuto, in terza persona e rileggerlo ogni volta che serve.
Ci provo.
Da qualche parte bisogna pur iniziare, no?