Come what may

… e si conclude con tre musicisti sul lungolago a ricordarmi che la musica ci sarà sempre.

Sì, inizio dalla fine perché a volte serve anche stravolgere le sequenze e il finale conta tanto quanto lo svolgimento.

Ieri sera ho trascorso ore a pensare a dove sarei potuto andare oggi. L’idea era di farmi un giorno al lago, in qualche posto attrezzato, per rilassarmi, leggere (che in casa ancora non riesco granché), farmi un tuffo. Ma l’impresa si è dimostrata complessa. Luoghi pieni. Luoghi che non si sa se sono aperti. Luoghi in cui per prenotare dovresti fare un doppio carpiato con avvitamento. E, in cima, la sensazione che nulla fosse davvero qualcosa che mi avrebbe dato soddisfazione, quell’impressione che mi scordo sempre di dover ascoltare subito perché significa che sto guardando nella direzione sbagliata.

E infatti.

A un certo punto ho ricordato che mi ero ripromesso di andare al cimitero da mio padre, cosa che non facevo da quasi un anno: a quel punto sarei partito da lì e poi avrei deciso sul momento cosa fare. Sì, era la decisione giusta, era ciò che dovevo fare.

La spinta, l’ho capito dopo, non era solo legata all’andare al cimitero: non è una cosa che faccio spesso, né da mio padre, né da mia madre che è invece qui vicino, perché sono fermamente convinto che chi abbiamo perso sia sempre con noi, ovunque siamo. Andare è un momento di riflessione, di raccoglimento, ma non un rendere visita nel senso comune del termine.

Eppure dovevo andare. E, dicevo, ho compreso il motivo della spinta mentre guidavo.

Chi mi conosce da tanto (e sono sempre meno, devo dire con una certa amarezza) sa che non ho mai rifiutato il cambiamento. Anzi, spesso l’ho cercato, l’ho accolto. Gli dei sanno quante volte ho cambiato pelle nella mia vita. Ma più si va avanti più i cambi pelle si fanno difficili perché quella vecchia è più coriacea, più dolorosa da staccare, lascia più ferite quando viene via. E quelle ferite, quel qualcosa che compare all’aria ma non è ancora definito, cerca una propria identità, qualcosa in cui riconoscersi. Il primo modo per farlo è guardare indietro. Alle pelli precedenti, a ciò che non si è più, per capire quanto di quello è ancora in noi.

O almeno credo.

Era iniziato l’altro giorno, mettendo in ordine lo studio, trovando foto vecchie se non antiche, ed eccolo proseguire oggi con questa spinta, che ha deciso di metterci il carico e farmi girare anche solo in auto tutti i luoghi che appartenevano alla mia infanzia e adolescenza laggiù, dove mio padre è seppellito.

Non andavo da tanto che ho sbagliato un paio di volte uscita, ma a mia discolpa quella strada è cambiata rispetto al mio passato più vecchio. E infatti quando mi sono ritrovato su certe strade il primo effetto è stato quello di muovermi in automatico: non è ovviamente memoria muscolare, ma comunque qualcosa di tanto inciso in me che non aveva bisogno ci pensassi. Non avrei saputo spiegare in dettaglio la strada, ma conoscevo istintivamente ogni angolo, ogni curva, tanto da avere avuto la netta sensazione di percepire un odore che sentivo sempre entrando nel bar dove andavo a giocare a flipper e ai videogiochi. Non ricordavo neanche che ci fosse un odore specifico, ma passandoci davanti il mio rettile se ne è ricordato per me.

Ma prima di andare in quei luoghi ho fatto una deviazione. In trent’anni, prima con mio padre e mia madre e poi da solo, ho sempre attraversato il ponte sopra il Ticino vedendo la gente a riva e non mi sono mai tolto la curiosità di vedere come fosse. Oggi sì. Perché oggi volevo fare anche un’altra cosa: ricordarmi che non è detto che ciò che non è mai stato non possa mai essere. L’ho fatto semplicemente perché potevo. Sono sceso. Ho camminato un po’ sui sassi del fiume in mezzo alla gente attrezzatissima. Ho vinto la paura di camminare sui sassi. Ho evitato di bagnarmi solo perché dovevo poi andare via. Ma l’ho fatto e l’ho respirato a fondo. E sono stato brevemente fiero di me.

Il giro, dicevamo. Ho guidato in strade conosciute con quell’assurda sensazione di qualcosa che non cambia eppure lo fa. Una banca diventata una caffetteria. Un’edicola/libreria dove andavo regolarmente non esiste più. Una pizzeria è ancora lì con lo stesso nome. Il campo da tennis dove andavo ogni tanto ormai in rovina. I campi di granturco sempre uguali a loro stessi. Nuove ville dove prima c’erano prati. La stazione ferroviaria senza stazione e con un solo binario. Cose così. E intanto la mia memoria istintiva che riconosceva tutto, che sapeva dove andare.

Mi sono fermato al cimitero. Pochi minuti. Non mi fermo mai molto. Ho pianto. Non è la prima volta in questi mesi, non sarà di certo l’ultima. Ho pianto perché raramente come questa volta ho sentito la sua mancanza, nonostante i casini che ha fatto, nonostante – e gliel’ho detto – sono certo che se ci fosse litigheremmo un giorno sì e l’altro pure. Ma mi manca, raramente come ora. Mi manca avere una famiglia, anche se composta di una sola persona.

E ho ripreso a guidare. La strada dove mi investirono ora è asfaltata. I muri di quella che era casa mia sono ancora bianchi. Il giardino sul retro è ben curato. C’è un bel barbecue. C’era una macchina parcheggiata. Avrei potuto fermarmi a salutare, ma no. Non oggi. Questo viaggio era ed è solo mio. E probabilmente avrebbe fatto ancora più male di quanto già ne stava facendo.

Sono salito per la strada dove portavo Lupo. A parte qualche recinzione non è cambiato nulla. L’ho rivisto correre davanti a me per acchiappare una lepre, come fossero passati due giorni e non trent’anni. Trenta, cazzo. Sono arrivato al ritrovo, identico a com’è sempre stato. Ho ancora una vhs con imbarazzanti video girati lì in cui mi improvviso cantante e ballerino. Moriranno con me. E ho foto con Lupo e con gli amici, lì. Le avessi portate avrei potuto sovrapporle e sarebbero sembrate scattate oggi.

Ma non è oggi, perché quei luoghi non mi appartengono più. Eccolo. Ecco il dolore. Il pensiero di quanto ormai non mi appartenga più. Quando si cambia si perde l’appartenenza a molte persone e luoghi, fa parte del pacchetto e quando avviene è quasi sempre immediato. Prima c’è, poi non c’è più. Come la distruzione, che avviene spesso in un istante. Costruire richiede tempo, tantissimo, così come creare legami con luoghi e persone. Recidere, distruggere, dissolvere no. Non ne hanno bisogno. Ed è anche per questo che quando si cambia ci si sente spaesati. Perché si sa che qualunque si potrà costruire, che magari sarà anche bellissima ed emozionante e unica, richiederà tempo. E a volte sembra infinito. O semplicemente si teme non ce ne sia abbastanza. Perché più si invecchia, meno tempo abbiamo, è oggettivo. Ogni giorno che passa è più probabile sia l’ultimo. Non voglio essere macabro o pessimista, è semplice raziocinio e statistica.

Fatto sta che Marano non mi appartiene più. Non mi sarebbe appartenuta comunque, lo so: se non fosse dei miei fratelli sarebbe di sconosciuti, non avrei mai potuto permettermi di mantenere quella casa. Ciò non toglie che la sensazione resti estraniante. Il pensiero che qualcosa che era fondamentale nella tua vita sia ora un elemento a cui tu sei estraneo. Un intruso.

Marano non mi appartiene più. Cesenatico non mi appartiene più. Arona, il Ticino, i traghetti sul Lago, Novi, Seano, Prato, Firenze, Bologna non mi appartengono più. Londra mi apparterrà ancora? Lucca mi apparterrà ancora? New York mi apparterrà ancora? La stessa mia casa non so se mi appartenga più, dopo che per mesi è stata una prigione dorata.

A cosa appartengo? Cosa mi appartiene? Non lo so più. Le mie pesti? Certo. Ciò che scrivo e produco? Probabilmente. Ma cos’altro? Dove altro? Io mi appartengo? Ovviamente, ma ora “io” è un divenire, quindi? E sì, lo so, i ricordi sono miei e non me li toglie nessuno. Lo so meglio di chiunque altro. Ma non sono ora. Sono parte di me, di quel me stesso che sono andato a cercare, ma restano ricordi. Fondamentali, ma ricordi. Così come il potenziale futuro: è potenziale. Sono conscio che sia possibile. Ma non è ora. Forse domani, ma non ora. Ora e in questi mesi c’è la distruzione. La costruzione potrebbe anche essere già in atto o forse no. Ma non è ora.

Sono risalito in macchina, in direzione Arona. Un luogo con ricordi, ma non tali da aggiungere ulteriori carichi. Una passeggiata sul lungolago, mi dicevo, e poi magari avrei proseguito per Stresa o magari a cercare qualche spiaggia.

Ma.

Ma a un certo punto ho incrociato tre musicisti. Li ho ascoltati prima distrattamente, li ho superati, ho proseguito la mia passeggiata e poi li ho ritrovati di ritorno. Erano bravi. Avevano pure una neofan Canadese che li ha sostenuti tutto il tempo (e che il cantante puntava evidentemente a intortarsi, nel più classico dei cliché). Suonavano country, folk, blues, rock. Mi sono fermato. E hanno suonato “Take me home country road”, quasi a siglare il mio percorso di quel giorno. Sono rimasto lì. Cinque minuti. Dieci. Un’ora. Fino alla fine. Ho lasciato che la musica mi abbracciasse. Mi avvolgesse. Mi mancava sentir suonare dal vivo, poco importa che fossero tre persone su un lungolago. Era musica dal vivo. E quando hanno fatto “Father and Son” ho pianto di nuovo. E quando hanno suonato The Sound Of Silence l’ho cantata con loro.

E sì. Lei c’è sempre. La musica c’è sempre. Anche quando nient’altro c’è, lei è lì. Magari non a consolarti. Magari a farti accentuare quello che provi. Ma c’è.

Erano ormai le 6 quando sono tornato alla macchina. Lo shuffle ha passato “Come What May”.

Ok.

Come what may.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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