Fuori
Ieri, 4 maggio 2020, sono uscito per la prima volta per fare una passeggiata. Avevo già deciso tutto, programmato come chissà quale appuntamento romantico:
- mascherina migliore rispetto alle schifezze trovate in farmacia: check
- autocertificazione: check
- idea del percorso su cui fare la passeggiata: check
- gel sanificante: check
- check
- check
- check
Quanti check per qualcosa che dovrebbe essere, ed è sempre stata, la distrazione di base di una qualunque giornata.
“Ok, sono stanco, vado a farmi una passeggiata”
“Ti va una passeggiata?”
“La giornata è troppo bella per stare chiusi in casa”
Tutte frasi che racchiudono non solo un pensiero, ma un modo di vivere che no, ieri non è tornato (e, lo so bene, non era previsto tornasse).
Ma comunque ho fatto tutto. Ho preso la macchina per spostarmi nella mia zona preferita, perché dopo due mesi volevo essere lì, ho tenuto la mascherina, ho mantenuto le distanze e ho camminato per più di due ore.
C’era il sole, faceva quasi caldo, una sensazione estraniante visto che l’ultima volta che ho passeggiato da quelle parti era inverno. Solo un’altra volta ho vissuto qualcosa del genere, quando rimasi bloccato in sedia a rotelle per mesi, ma allora la prima uscita seppe di libertà. Ieri aveva sapore di contentino.
Un contentino assolutamente accettato e gradito, sia chiaro, ma pur sempre un contentino.
C’era gente, sì, ma per quanto possa dire io (che ho camminato da Piazza Gae Aulenti al Duomo e sono tornato indietro) la maggior parte rispettava le regole con mascherine e distanza. Non tutti, ovviamente, ma non saranno mai tutti.
È stato bello camminare in mezzo ad altre persone, nonostante quel retropensiero di paura ormai inculcataci rimanga presente: non voglio farti pensare che mi avvicino troppo, non voglio che tu ti avvicini troppo ma al contempo vorrei abbracciare te e tutti gli altri. O quasi.
E sorridere. Sorridevo. Sorridevo a quasi tutti quelli che incontravo. Peccato che non si vedesse. Perché sì, le mascherine ora servono (in pubblico? da soli? va beh, lasciamo perdere), ma le mascherine si portano via il nostro sorriso.
Camminare per vie commerciali è un agrodolce più verso l’agro. Molto di più. Sì, ci sono attività che si stanno attrezzando per riaprire e alcune che l’hanno già fatto. Ma quasi ognuna di queste ha cartelli che ti ricordano che si entra uno alla volta, che non puoi consumare nulla subito fuori (cosa che con le gelaterie è parecchio destabilizzante).
E poi ci sono quelle che non hanno riaperto e non si sa se lo rifaranno. Qualcuna con un cartello “si riapre a data da destinarsi”. Qualcun’altra con “ci vediamo il 3 aprile”.
Ho impiegato un po’ a capire perché 3 aprile, tanto sembrava lontana quella data, poi ho ricordato che era una di tante, troppe scadenze in cui tutto avrebbe dovuto tornare normale, se ancora quella parola significa qualcosa. Vedere quei cartelli parlare al futuro di una data lontana un mese nel passato è stato quanto di più triste, forse, accaduto in quelle due ore. La stessa sensazione che si ha nei film post-apocalittici camminando tra i resti di un passato che non esiste più, ovviamente ridimensionata.
La stessa che si ha guardando su un’agenda appuntamenti segnati che poi hanno ceduto il passo a traumi imprevisti.
Come quando una macchina mi investì e non potei tornare a scuola fino a fine anno.
Come quando mi ruppi il tendine cancellando non solo le vacanze estive ma molti progetti di lì a seguire.
Come quando mio padre entrò in casa dicendo solo “non doveva succedere” e capii che mia madre era morta.
Come quando la salute di mio padre precipitò da un giorno all’altro e nel giro di poche settimane lo persi.
Tutti abbiamo, personalmente o socialmente, momento distruttivi come quelli. Questo è uno di loro, a livello di società, a livello di singole persone che hanno perso i propri cari, il lavoro, la serenità.
E quei cartelli, quel “ci si rivede il 3 aprile” me lo ricordano con prepotenza.
Ho camminato, ho camminato a lungo nonostante le spalle facessero male e il crampo al polpaccio poco prima di rientrare. È stato bello rivedere i miei luoghi, ma con tutti i ma che ho già detto e con la sensazione che no, non lo sono, non ora, non ancora non per ancora un po’.
E tornando in macchina il pensiero è stato che, per quanto anelata e necessaria e voluta, questa passeggiata non è stata liberatoria come avrei voluto: sia chiaro, sapevo che non avrebbe potuto esserlo, ma c’è sempre una piccola speranza che resta.
Non lo è stata perché non era una delle vecchie passeggiate, ne era la copia fornita in concessione, una copia la cui certificazione mi pesava in tasca.
E ho pensato che forse, FORSE, tornerò a sentirmi libero quando quella certificazione non ci sarà, quando potrò decidere cosa voglio fare senza dovermi chiedere se posso, quando non solo sarò autorizzato a vedere i miei amici, ma anche ad abbracciarli, a mangiare una pizza insieme, a vederne i sorrisi e non una maschera.
Allora, solo allora, forse sentirò che qualcosa riparte.
E c’è chi ribadisce che non è un liberi tutti.
Grazie, ce ne siamo accorti.
Fin troppo bene.