Criminal: i quattro volti degli interrogatori
Netflix non è nuova a esperimenti sui prodotti originali. Già con Bandersnatch, ad esempio, aveva provato a cambiare e manipolare le regole della narrazione, pur se in modo completamente diverso da quello proposto in questo contesto. Criminal è infatti prima di tutto un esperimento e lo è sotto vari punti di vista.
Il primo, più immediato e forse banale, riguarda la costruzione dei singoli episodi. Una trama orizzontale (quasi del tutto) assente, nessuna ripresa esterna e, come interni, solo tre ambienti. In questi e, in particolare, in una stanza di interrogatori si dipana l’intera trama verticale della quale non ci viene anticipato nulla. Non abbiamo premesse, non abbiamo contestualizzazione, tutto ciò di cui lo spettatore viene a conoscenza è quanto emerge dall’interrogatorio stesso e dai personaggi presenti, per lo più agenti e investigatori incaricati delle indagini. Il rinunciare alla contestualizzazione fa sì che la scrittura della trama e dei dialoghi diventino cardine portante per la riuscita del singolo episodio e che le interpretazioni degli attori siano la discrimimante tra un risultato ottimo o quanto meno accettabile e un disastro completo.
Se gli interrogati cambiano a ogni episodio, costanti sono invece le controparti delle forze dell’ordine (fatto salvo il secondo aspetto sperimentale di cui parleremo a breve): anche sotto questo punto di vista, però, non si presenta una vera e propria continuità che, anzi, viene volutamente spezzata suggerendo che ogni episodio si svolga a una certa distanza temporale dal precedente, sia esso di pochi giorni o addirittura settimane o mesi.
È qui uno dei punti salienti in cui si nota l’abilità degli sceneggiatori: i più bravi tra quelli che si sono cimentati in Criminal sono riusciti a far intuire caratteri, dinamiche e debolezze dei personaggi sfruttando le sole interazioni come in un quadro nel quale solo qualche pennellata aiuta a immaginare il contesto.
Se quindi la sceneggiatura prepara la scena è la recitazione a definire il risultato finale, soprattutto quando il testo lascia ampio spazio: quando l’alchimia funziona si ha l’impressione di assistere, più che a scene con pochi personaggi, a veri e propri monologhi teatrali in cui i comprimari fungono esclusivamente da spunti per l’interpretazione del vero protagonista di turno.
È il caso dei due episodi che andremo a recensire più nel dettaglio che vedono come protagonisti rispettivamente i bravissimi David Tennant e Hayley Atwell in ruoli non del tutto prevedibili.
Ma, dicevamo, l’esperimento di Criminal è composto e il secondo aspetto riguarda l’ambientazione generale. Richiamando un po’ i vari spin-off localizzati dei tanti telefilm polizieschi o forensi del passato (si pensi anche solo a CSI e a NCIS), la serie è in realtà suddivisa in quattro sottoserie ambientate in altrettanti paesi europei e con cast, lingua e produzione localizzati. A fianco a Criminal: United Kingdom (che abbiamo implicitamente menzionato poco sopra) troviamo Germany, France e Spain.
Il primo aspetto che colpisce è rendersi conto che la location in realtà non cambia. La stanza degli interrogatori, quella di osservazione e l’atrio esterno sono esattamente gli stessi nelle quattro sottoserie, con l’unica variazione rappresentata dal panorama fuori dalle finestre: una scelta volta a ridurre al minimo le differenze secondarie dei vari gruppi di episodi. In assenza di esterni e con gli interni identici le variabili che cambiano da una sottoserie all’altra sono date da sceneggiatura, regia e attori che rispecchiano il paese di provenienza e che dimostrano quanto la sensibilità e i risultati varino pur nelle stesse condizioni produttive.
Il risultato dell’esperimento è quanto meno interessante e i quattro prodotti, pur simili, si discostano parecchio come effetto finale e impatto sullo spettatore. Non solo, infatti, i temi affrontati cambiano sensibilmente da un’ambientazione all’altra, ma anche il focus sulle dinamiche dei personaggi costanti cambia notevolmente influenzando di conseguenza lo stile narrativo e – a nostro giudizio – la qualità complessiva della sottoserie.
Esemplare i due antipodi di UK da un lato e Spain dall’altro. La prima lascia pochissimo spazio personale ai personaggi costanti, definendoli soprattutto attraverso gli interrogatori stessi e i pochi momenti interlocutori, lavorando splendidamente per sottrazione grazie più al non detto che all’esplicitato.
Spain fa l’opposto. Lo spazio dato ai personaggi ricorrenti è più ampio, viene raccontato più di loro e vengono imbastite sottotrame che non riescono a catturare particolarmente l’attenzione del pubblico. Molto fanno sicuramente la diversa sensibilità e il differente stile recitativo di un cast non più che discreto, che pongono Spain in coda a una potenziale classifica dei quattro gruppi.
Dal canto loro France e Germany si pongono a vari livelli intermedi. Nessuna delle due sceglie la strada di UK, ma lo spazio dedicato alle forze dell’ordine è comunque meno ampio rispetto a Spain, con risultati altalenanti. Soprattutto nella produzione francese i personaggi hanno comportamenti spesso sopra le righe che, in assenza di un approfondimento che sarebbe possibile in altre serie, finiscono per essere più irritanti e sconclusionati che interessanti.
Più abile è la scrittura della sottoserie tedesca, che – pur avvicinandosi a quella francese in quanto a tempi e gestione dei personaggi e a quella spagnola per l’utilizzo di una sottotrama legata a un investigatore – riesce a mantenere un miglior equilibrio supportato da un cast probabilmente più in parte.
Si può dedurre come sia impossibile, quindi, dare una valutazione organica sensata che esuli da quanto già detto: per forza di cose si finirebbe per dovere esprimere eccezioni legate ai singoli episodi o alla personale sensibilità dello spettatore e di chi scrive che può trovarsi più o meno interessato da un modo di affrontare le premesse rispetto a un altro.
Per quanto riguarda questo articolo, gli autori hanno preferito soffermarsi sui due episodi di UK già citati, che sono risultati quello più impattanti sia dal punto di vista emotivo che dell’affinità rispetto allo stile narrativo.
Stacey
Hayley Hatwell, nell’episodio dedicato al suo personaggio “alternativo” dai fiammanti capelli rosa, è ulteriormente consacrata come attrice più che brillante, con un’espressività quasi struggente che conduce all’immedesimazione in primis i detective che la interrogano (o dovremmo dire le detective, data la scelta di un dibattito interamente al femminile) e, in seconda battuta, lo spettatore. Tralasciando la luce di Hayley, che offusca molto altro di quello che vediamo nell’episodio, quest’ultimo ha una particolarità da notare: l’interrogato ammette blandamente e rapidamente la colpa (volutamente), rendendo il caso risolto in quattro e quattr’otto in un quarto del minutaggio totale.
Tuttavia, l’inganno non riesce a superare l’intuito femminile, che riesce a guardare al di sotto della superficie e a portar in superficie i reali traumi della donna sotto esame: un amore (se così si può chiamare) disturbato e contorto, il senso di protezione incondizionato nei confronti della sorella, l’idea di meritare il male per gli errori commessi, come se non ci fosse spazio per la redenzione.
È vero, è dura perdonare la debolezza umana. Ma lo è ancor di più prendersi una colpa non propria e quando essa riguarda un omicidio con annesso veleno per topi, in quanto a pesi emotivi sulle spalle da portare non si scherza. E in questo caso giocano un ruolo fondamentale i personaggi circostanti che – seppur minori – hanno il ruolo cardine di guidare la protagonista alla realizzazione di quello che è giusto, anche se difficile da accettare.
Edgar
Che David Tennant fosse non solo un grandissimo attore, ma anche pienamente in grado di reggere ruoli da villain era cosa già risaputa: non è un caso se il “Jessica” ripetuto e urlato dal suo personaggio in Jessica Jones è diventato iconico per i fan della serie Marvel. Ma in questo primo episodio di Criminal UK Edgar, cui Tennant presta volto e voce, è un antagonista molto più sottile e sfumato. Inizialmente gelido, poi tanto umano da riuscire quasi a convincere spettatore e antagonisti in scena della sua buona fede e poi, una volta scoperto, di nuovo spietato.
La capacità di Tennant di trasmettere sensazioni anche solo cambiando lievemente lo sguardo viene qui sfruttata completamente, complice una sceneggiatura che lascia all’interpretazione dell’attore lo spazio che merita.
Qui più che in ogni altro episodio dell’intera serie si ha quell’effetto monologo di cui si parlava prima e, data l’enorme esperienza teatrale di Tennant, il risultato finale è portatore di parecchi brividi lungo la schiena.
L’unico difetto – se tale si può chiamare – è il trovarsi con un episodio di tale fattura a inizio serie, seguito dal quasi altrettanto meritevole Stacey, che diventano così un termine di paragone difficile da superare e che, infatti, non viene superato in nessuno degli altri dieci episodi di Criminal.
(Articolo scritto a quattro mani da Sergio Ferragina e Claudia De Luca)