La fine di un’era: dopo il Big Bang

Sette amici in un soggiorno. Tre sono sul divano, uno in poltrona, due – casualmente le ultime arrivate, se così si può dire di chi c’è ormai da nove anni – su sedute di fortuna e uno sul tappeto. Mangiano da un numero indefinito di confezioni da take away, come hanno sempre fatto in dodici anni. Non è una scena nuova di per sé, anzi, è senza dubbio l’immagine più iconica che si può associare a The Big Bang Theory, ma stavolta la sua importanza è epocale: si tratta infatti dell’ultima volta che vedremo Leonard, Sheldon, Penny, Howard, Raj, Bernadette ed Amy, la scena con cui la più longeva sitcom multicamera ha salutato i fan di tutto il mondo, chiudendo letteralmente un’era.

Il Big Bang iniziale, che diede vita a questo lungo universo narrativo, avvenne nel 2007, dopo la falsa partenza di un pilot mai andato in onda, che aveva solo alcuni degli ingredienti di ciò che sarebbe stata poi l’amata serie: non c’era Penny, al cui posto avevamo un personaggio meno candido e piacevole, c’erano alcune battute più grevi ma, soprattutto, Sheldon non era ancora stato definito nella sua versione definitiva; basti pensare che veniva menzionato il suo aver fatto sesso durante una convention di Star Trek. Impensabile.

Fortunatamente, CBS vide il potenziale della serie e permise a Chuck Lorre e Bill Prady di lavorarci ulteriormente, dando vita al nuovo concept e a dodici anni di storie inizialmente esilaranti e poi, col tempo, progressivamente – e naturalmente – meno efficaci.

Tutto era diverso, in quel 2007, soprattutto il ruolo sociale del nerd, che ancora doveva essere sdoganato e diventare mainstream. Gli stessi toni delle prime stagioni giocavano su questo aspetto, mostrando i nostri come gli alieni in un mondo che difficilmente li capiva e raramente li accettava. Penny era la cartina tornasole, l’elemento di stacco che permetteva all’ignaro spettatore non-nerd di non essere solo nel non capire e nel ritenere strani questi personaggi così incapaci di stare al mondo eppure, al contempo, così brillanti nei loro piccoli universi.

Le prime stagioni di The Big Bang Theory riuscirono in un compito apparentemente impossibile: raccogliere spettatori nerd e non e farsi apprezzare allo stesso modo da entrambe le categorie. Se, come detto, i non nerd potevano ridere di questi personaggi così strani, i nerd avevano una rappresentazione sullo schermo in cui potevano riconoscersi pienamente, vedendo finalmente riportate le mille sfaccettature delle loro passioni ma anche della difficoltà di vivere in un mondo che non si e non ci capisce.

Chi scrive ricorderà sempre, in quelle prime stagioni, la forte empatia provata nei confronti di Leonard e della sua difficoltà nella relazione (prima desiderata, poi ottenuta, poi spezzata e infine ricostruita) con Penny. Quell’amore provato per una persona che si teme non essere alla propria portata e le costanti indesiderate conferme che sì, probabilmente non lo è, è un qualcosa che tanti nerd hanno vissuto più volte e che finalmente una serie, per quanto esilarante, portava sullo schermo.

The Big Bang Theory funzionava perché raccoglieva la realtà, la impacchettava in una sitcom e la dava in pasto ai suoi stessi protagonisti sparsi per tutto il mondo, seminando nel frattempo frasi e momenti che sarebbero rimasti nel futuro immaginario seriale: da Bazinga, a Soft Kitty passando per il Nome-toc toc-Nome-toc toc-Nome-toc toc declinato in mille varianti.

Poi le cose sono cambiate e, a dodici anni di distanza, la cultura nerd è entrata di forza a far parte di quella pop diventando a tutti gli effetti mainstream: se prima nerd era un’offesa, ora si fa a gara a definirsi tali. Difficile dire se la serie sia giunta al momento giusto e sia stata fortunata o se invece abbia rappresentato una forza motrice in tale direzione, ma se dovessimo scommettere punteremmo sulla seconda ipotesi: The Big Bang Theory, da sola, non avrebbe certo potuto cambiare le cose, ma unita all’avvento dei tanti film e serie Marvel e DC e di una rinata Star Wars ha schiuso una porta che nessuno prima aveva voluto davvero aprire e ha mostrato al grande pubblico che forse questi nerd non solo non erano così male, ma probabilmente avevano anche una buona dose di ragione.

La differenza di prospettiva si notò anche nelle storie raccontate, in cui lentamente l’anomalia finì per diventare Penny, anche e soprattutto quando al gruppo si unirono due ulteriori componenti femminili che, per quanto non nerd nelle passioni, lo erano nelle rispettive attività: non per niente, il ruolo del personaggio di Kaley Cuoco ebbe la necessità di essere ripensato e reindirizzato, onde evitare di rimanere bloccato in un “bevo vino e faccio battute” che iniziava a perdere di mordente.

Gradualmente e inesorabilmente, The Big Bang Theory finì per normalizzare il nerdismo e rappresentarlo come lo standard – con picchi di anomalie residenti soprattutto in Sheldon – invece di una esilarante eccezione. Un’evoluzione naturale, per molti versi necessaria, ma che comportò anche una perdita in termini di momenti realmente divertenti, concentrandosi troppe volte sulle incapacità sociali di Sheldon e poco altro, con qualche ulteriore picco rappresentato dall’evoluzione del rapporto da Howard e Bernadette, dall’aggiunta di personaggi secondari come Stuart e dalla periodica comparsa di ospiti d’eccezione che mai hanno mancato di brillare e far brillare l’episodio.

Negli anni si sono avvicendati nomi come i compianti Stephen Hawking, Stan Lee e Carrie Fisher, ma anche Mark Hamill, Neil deGrasse Tyson, innumerevoli membri del cast dei vari Star Trek (a partire da un fantastico Will Wheaton), per non parlare di premi Nobel, celebrità dello spettacolo o del mondo della tecnologia: se le guest star sono indicative del successo di una serie (e Friends suggerirebbe di sì), allora i dodici anni di vita di The Big Bang Theory sono più che giustificati, così come lo sono i numerosi premi vinti.

Come dicevamo, però, l’aspetto meramente di intrattenimento era ormai in declino da tempo e dove prima esplodevano le risate, ora spesso si finiva più per sorridere: era giunto il momento di mettere la parola fine a una storia che, altrimenti, avrebbe rischiato di terminare per implosione.

Preso atto di questo, e sulla spinta di un Jim Parsons desideroso di sganciarsi dal suo ruolo, gli autori hanno dato vita ad un’ultima stagione che, soprattutto nella seconda parte, ha mostrato che The Big Bang Theory aveva ancora qualche freccia al suo arco. Sfruttando la trama orizzontale dell’anelato premio Nobel di Sheldon ed Amy e affrontando nel frattempo vari aspetti più o meno interessanti (incluso il potenziale matrimonio di Raj), la stagione è giunta a un doppio episodio conclusivo che è riuscito non solo a tirarne degnamente le fila, ma a dare un soddisfacente risalto all’evoluzione avuta da tutti i personaggi nei suoi dodici anni di vita.

Con scelte che in qualche momento hanno rasentato – legittimamente – la metanarratività, la serie ha salutato gli spettatori commuovendoli, facendoli ridere (e non semplicemente sorridere) e lasciando i personaggi esattamente dove era giusto che fossero, virtualmente e – chiudendo su quel divano – anche fisicamente.

Tanto si può dire di queste dodici stagioni: che fossero ormai troppe, che alcuni personaggi non avessero più granché da dire (ci riferiamo soprattutto a Raj), che stavano finendo le idee, che certe evoluzioni siano state forse un po’ forzate. Tutte obiezioni legittime, ma che lasciano il passo a una considerazione ben più importante: per dodici anni quei sette hanno raccontato la loro amicizia diventando a loro volta nostri amici e salutarli, ora, è come dire addio a un gruppo di persone a cui abbiamo voluto bene, anche quando magari non avevamo più molto da dirci.

Era il momento, sì, ma ci mancheranno comunque.


Aggiornamento del 03/06/2019. È disponibile uno speciale di Polo Nerd dedicato a The Big Bang Theory. Potete ascoltarlo direttamente qui sotto.

Ascolta “Speciale The Big Bang Theory” su Spreaker.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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