American Gods: 2×08 Moon Shadow
Più volte si è detto come buona parte della produzione Gaimaniana si basi su un assioma ben preciso: che il credere genera la realtà. American Gods rappresenta – insieme a Sandman – la messa in scena più tipica di tale presupposto e il finale di questa problematica seconda stagione va oltre: non solo, infatti, la fede genera gli dei, ma la paura sufficientemente alimentata genera l’oggetto su cui è rivolta.
Partendo e prendendo spunto dalla nota – e parzialmente gonfiata – vicenda di Orson Wells e della sua lettura radiofonica della Guerra dei Mondi, un Mr. World che sfonda la quarta parete – in modo sicuramente ad effetto quanto non necessario – spiega direttamente allo spettatore quanto sia la paura e non l’amore a far girare il mondo, a guidare le reazioni più istintive dell’essere umano, a creare dal nulla ciò che si teme, se resa adeguatamente credibile, in un Ouroboros in cui causa ed effetto si fondono rendendo quasi impossibile distinguerli.
Lo spazio dato al personaggio di Crispin Glover permette all’attore di giocare un po’ più con l’interpretazione del ruolo e a renderlo più inquietante e sfaccettato di quanto visto nel resto della stagione, sebbene continui a percorrere pericolosamente il confine tra l’inquietudine e l’essere eccessivamente sopra le righe.
La paura, si diceva, è la colonna portante dell’intero episodio ed è la vera arma tenuta celata dai Nuovi Dei fino all’ultimo: distruttiva al punto da chiedersi come si possa davvero reagire a qualcosa di tanto devastante.
Qualcuno lo fa fuggendo, come Odino ha dimostrato di saper fare da tempo, soprattutto una volta persa la sua amata lancia: una fuga tanto irritante quanto prevedibile, che lascia Shadow meritatamente in balia degli eventi. Dopo due stagioni e quasi venti episodi, il buon Moon si rende forse finalmente conto che Wednesday non è il dio più affidabile del pianeta e lo fa solo dopo che praticamente tutti i personaggi nell’episodio lo spingono nella giusta direzione.
Sotto quest’ottica, la scena iniziale con Laura non depone certo a favore del geniale protagonista. Se, innegabilmente, la donna ha commesso decine di errori nel corso della sua vita, ha anche sempre cercato, nella sua nuova esistenza, non solo di redimersi ma soprattutto di aiutare e proteggere il marito. Shadow decide di non voler vedere nulla di tutto ciò, chiudendo (definitivamente?) la porta in faccia alla donna e quasi non battendo ciglio quando lei stessa gli conferma che Wednesday è il mandante della sua morte.
Quando le due strade si separano, Laura è sicuramente l’elemento della coppia che ha diritto di andarsene a testa alta – pronta a uccidere Odino – e con un Leprecauno sulle spalle: difficile dire se tale scena sia volta a preannunciare il ritorno di Mad Sweeney o se invece voglia solo suggerire il desiderio della donna di dare degno addio all’unico individuo con cui si era instaurato un legame in questa nuova (non) vita.
“Ha fatto ciò che ha potuto” dice l’incisione sulla lapide sotto Shadow e, in modo ben poco sottile, difficilmente un’affermazione poteva essere tanto adeguata: Laura ha fatto ciò che ha potuto, ma giunge il momento in cui andarsene è l’unica risposta possibile.
In altri casi la risposta è rischiare il tutto per tutto e violare patti precedenti. Nonostante la paura in cui viene gettato Salim per buona parte dell’episodio, la sua reazione, il suo desiderio di rimanere col suo amato Jinn sono una risposta in gesti alle affermazioni di World: Salim non fugge, nonostante sia terrorizzato. Non se ne va, perché vuole scegliere con la propria testa e – banalmente – col proprio cuore, anche se rischia di perdere qualunque cosa, vita inclusa, seguendo tale strada. Il premio è quello più anelato: l’Ifrit decide di voltare le spalle a Wednesday – non primo né ultimo di una sempre più lunga serie – per rimanere col suo amato, costi quel che costi.
Il piano in cui Salim stava venendo travolto aveva però come obiettivo principale Shadow stesso, a dimostrazione di quanto il suo ruolo continui a essere, almeno concettualmente, fondamentale nella guerra tra le due fazioni. New Media, con l’aiuto del rinato Technical Boy, colpisce con tutta la sua potenza e per quanto possa – non lo diremo mai abbastanza – non piacerci questa nuova incarnazione, la sua capacità offensiva è mostruosa e più che mai attuale.
Senza alcun tipo di connessione ai fatti, ormai inutili, la diffusione stessa di notizie falsate, manipolate e volutamente indirizzate finisce per generare un terrore devastante che porta la gente a fare scorte di cibo e carburante, a bloccare i bancomat, a ricorrere esclusivamente ai pagamenti cartacei oltre, ovviamente, a scatenare una caccia agli uomini diffondendo i volti dei tre criminali innocenti: Wednesday, Salim e Shadow.
La reazione dello stesso Salim è indicativa: finché non compare il suo volto sullo schermo è propenso a credere alle accuse agli altri due solo perché le stanno trasmettendo i media. O meglio New Media. Nessuno è immune alle manipolazione finché non scopre di esserne vittima inconsapevole e a volte neanche allora.
È volutamente ironico come il personaggio meno conscio di sé e più manipolato sia anche quello che, col proprio risveglio ancora parziale, riesce a spezzare il piano distruttivo degli avversari. La presa di coscienza, attraverso i fin troppi indizi e l’interazione finale con Yggdrasil, porta finalmente Shadow a comprendere che Odino l’ha manipolato da sempre, da prima ancora della sua nascita e gli costantemente tenuto nascosto di esserne il padre.
L’importanza di Shadow, quindi, è solo legata al fatto di essere figlio di Wednesday? Difficile a dirsi, anche perché non è garantito che la serie segua la traccia del romanzo, ma qualche considerazione piuttosto banale ci fa rispondere negativamente: esisteva già un figlio di Odino, quel Thor/Donar suicidatosi negli anni ’50 e verso il quale i Nuovi Dei non sembrano aver avuto alcun tipo di interesse. Il ruolo di Shadow – imbecillità del personaggio a parte – va oltre: potrebbe essere legato alla sua vera identità (che non riveleremo qui, ma che i lettori del romanzo conoscono) o qualcosa di ulteriormente diverso che verrà sviscerato – si spera – in futuro.
Ciò che è certo è che la stagione si chiude cambiando repentinamente lo status quo dei personaggi dopo sette episodi quasi completamente di attesa e prepara un nuovo terreno di gioco per l’altrettanto nuovo showrunner.
Abbiamo più volte detto quanto questa stagione sia stata deludente per la maggior parte del tempo: Moon Shadow riesce a compiere qualcosa di molto difficile, lasciando un po’ di speranza dopo tante aspettative deluse, ma si tratta comunque di un episodio ben lontano dalla perfezione. Le scene tra Ibis e Nancy, i detti/non detti della Regina di Saba, il già citato sfondamento della quarta parete sono tutte scelte stilistiche che funzionano se supportate da una stagione forte e da uno stile visivo e narrativo definito, ma che piazzati così lasciano spiazzati se non irritati.
Neil Gaiman ha rilasciato più di un’intervista in cui si è espresso più o meno chiaramente sulla stagione: ha chiarito più volte come il suo contributo sia spesso stato scarso o nullo dati gli impegni sul set di Good Omens e, pur dichiarando che Jesse Alexander abbia fatto l’impossibile con ciò che aveva, ha anche sottolineato che la collaborazione con Charles Eglee – che dovrà occuparsi di portare Shadow a Lakeside – dovrebbe essere più stretta e produttiva, portandolo a parlare anche di una quarta stagione non ancora annunciata.
Chi scrive è un fan di lunga data di Gaiman e vuole fidarsi delle sue speranze, ma di certo le promesse non bastano e American Gods dovrà lavorare duro per dimostrare di essere non solo all’altezza del suo nome e delle aspettative dei fan, ma anche semplicemente degna di essere guardata.