American Gods: 2×04 The Greatest Story Ever Told
A un occhio distratto potrebbe sembrare che gli articoli incentrati su questa stagione di American Godssiano un continuo confronto con la precedente e, soprattutto, una ricerca di ciò che manca rispetto a quella.
Il problema sostanziale, però, è che quando una serie nasce con un’impronta stilistica molto ben delineata, qualunque discostamento necessita di essere ben calibrato e, sopratutto, valido almeno sotto un aspetto tra stile, narrazione ed emozione: arrivati ormai a metà di questa stagione non è azzardato affermare che, purtroppo, neanche uno di questi punti viene gestito a dovere e quando abbiamo momenti di maggior ricerca, tentativi di risollevarsi, questi finiscono per fallire l’intento o dissolversi nella piattezza generale.
The Greatest Story Ever Told è un esempio lampante di quanto affermato. Rispetto agli episodi che l’hanno preceduto, questo cerca di recuperare almeno parte dell’atmosfera persa, ma lo fa senza avere ben idea di quali siano le componenti da riprendere e quali da lasciar perdere: non è sufficiente, infatti, scimmiottare i flashback che introducevano gli episodi nelle prime stagioni per replicarne l’effetto; anzi, piazzarne uno che sposta il focus su un fedele di Technical Boy finisce per essere controproducente: i flashback funzionano bene quando si parla degli antichi dei, per mostrarci il loro arrivo nel Nuovo Mondo, ma il passato di Technical Boy non è epico, non è interessante, non è narrativamente fondamentale se non per introdurre – senza pathos – un personaggio che ne segnerà la scomparsa (da vedersi se definitiva o meno).
E proprio questa conseguenza sottolinea i grossi problemi narrativi: che Technical Boy sia sempre più obsoleto dopo l’arrivo della scialba New Media è evidente, ma il motivo reale per cui avviene la sua scomparsa è spiegato male e affrettatamente; ricordiamoci che nella narrativa Gaimaniana e di American Gods nello specifico gli dei hanno potere ed esistono finché un numero sufficiente di persone crede in loro: Technical Boy perde – forse – la fede di un solo individuo; perché quindi diventa così vulnerabile, a parte la volontà degli sceneggiatori che così sia?
Sul fronte degli Antichi Dei, il ritorno di Bilquis funge da scusa per un confronto tra le tre divinità di colore al momento presente nello spettacolo, con un monologo di Anansi che, per quanto importante, manca di quel mordente che il personaggio aveva sfoggiato nella prima stagione: la denuncia contro il Trumpismo e la situazione della gente di colore in America è importantissima e reale, ma la scrittura non all’altezza la rende priva di quella capacità evocativa che un attore come Orlando Jones avrebbe enfatizzare in modo convincente; è comunque merito suo se il messaggio arriva e se il monologo riesce a toccare qualche corda emotiva nonostante gli evidenti difetti di scrittura.
Se, quindi, i personaggi secondari riescono a donare qualche momento interessante, a cui aggiungiamo il bello scambio tra Yetide Bataki e la guest star Mouna Traore, sul fronte di Wednesday e Shadow la calma è sempre più piatta: la scena di sesso iniziale tra quest’ultimo e Bast, pur richiamandone una praticamente identica nel romanzo, è piazzata senza contesto né approfondimento e sembra più inserita allo scopo di aggiungere un po’ di prurito che per veri scopi narrativi; ciò nonostante risulta, però, forse l’unico momento di interesse in una storyline che non fa molto più che richiamare sbadigli.
Wotan è – ancora – alla ricerca di alleati e – ancora – gioca al non detto con Shadow, che di contro non fornisce certo molti spunti di interesse. L’idea stessa che il nuovo dio più potente sia il denaro è interessante ma ci lascia con parecchie riserve sia per – di nuovo – la mancanza di sfumature nel presentare le situazioni che per la resa opinabile del tutto.
Siamo, l’abbiamo già detto, a metà stagione e sostanzialmente non sta succedendo nulla. Mr. World minaccia ma non agisce, Technical Boy fa il finto trasgressivo fino a sparire senza reali spiegazioni, New Media è l’inutilità fatta personaggio e Odino girovaga alla ricerca di alleati in una guerra che di, questo passo, non avrà bisogno di arrivare perché gli spettatori saranno tutti morti per noia.
Da sottolineare, poi, come la mancanza di Emily Browning e Pablo Schreiber in questo episodio pesi parecchio, a dimostrazione ulteriore di quanto le singole interpretazioni degli interpreti stiano venendo in salvataggio di una narrazione che non solo non torna, ma non è ben chiaro per dove sia partita. Quando poi Ian McShane e Crispin Glover finiscono per ridurre il proprio impegno e fornire interpretazioni sempre più stereotipate e macchiettistiche, allora la speranza che la seconda metà della stagione riesca a risollevarsi si riduce a un flebile lumicino.
Quattro episodi e se vogliamo trovare una certezza è che questa stagione non ha un’identità precisa né una direzione determinata, il che sarebbe grave a prescindere ma diventa imperdonabile quando ci si trova davanti a un prodotto con un certo tipo di passato e di aspirazioni, con metà percorso alle spalle e una terza stagione già annunciata.