Doctor Who: 11×06 Demons Of The Punjab

Mentre proseguiamo in questa undicesima stagione di Doctor Who ci troviamo a poter stabilire progressivamente dei punti fermi e a mantenere, in contrasto, altrettanti punti di domanda. Demons Of The Punjab mantiene questa tradizione in fase di consolidamento, dandoci alcune conferme e lasciandoci parecchi dubbi.

La prima certezza è che questa stagione funziona molto meglio quando ci porta nel passato. Dopo Rosa, che resta a oggi l’episodio migliore visto quest’anno, anche questo sesto sfrutta il viaggio nel tempo per veicolare l’ennesimo messaggio di denuncia ben poco nascosto, altra certezza della nuova run di Chris Chibnall.

Lo scrittore Vinay Patel, alla sua prima esperienza col Dottore, sfrutta le origini di Yaz per raccontare una vicenda probabilmente poco conosciuta in occidente (e chi scrive deve ammettere la sua estrema ignoranza al riguardo): la separazione tra India e Pakistan avuta luogo nel 1947 e che avrà ruolo determinante per la vita personale della companion.

Se, quindi, in Rosa avevamo un focus su quanto un singolo individuo possa cambiare le sorti di un mondo o addirittura un universo, in Punjablo sguardo è quasi speculare, a ricordarci di quanto milioni di nomi e volti vengono dimenticati dalla storia dietro numeri che, per quanto enormi, finiscono per disumanizzare; ottimo, da questo punto di vista, il continuo contrasto tra gli eventi esterni e in larga scala (resi soprattutto dagli annunci radio o dai cenni dei protagonisti) e la vita quotidiana di chi, travolto dagli stessi, non riesce a comprendere come possa essere possibile vedere la propria vita annientata da un giorno all’altro senza un vero motivo se non il tracciamento di una linea deciso da altri.

Anche l’entità aliena dell’episodio, i Thijarian, funge soprattutto da sguardo esterno e promemoria di ciò che può accadere se non si abbandona l’odio ma anche da messaggio di speranza che suggerisce che chiunque, anche i peggiori assassini dell’universo, possono evolvere.

Legandoci a questo va sottolineato come in questa stagione il vero nemico non sia quasi mai una minaccia esterna, tipicamente aliena, ma sia rappresentato soprattutto dall’oscurità insita nella natura umana e quando, invece, si cerca di fornire una situazione più classica, gli episodi finiscano per perdere di mordente e diventare sopra le righe, come visto in Arachnids in the UK e nello scorso The Tsuranga Conundrum: che l’intenzione dello showrunner sia particolarmente volta all’utilizzo del Dottore per incanalare messaggi anche molto importanti è ormai cosa nota, ma perché questo funzioni è necessaria una scrittura equilibrata che non diventi stucchevole o prevedibile.

Patel, da questo punto di vista, se la cava piuttosto bene, sicuramente meglio del Chibnall di Tsurangama anche lui cede alla tentazione del breve monologo a effetto che, per quanto bello, rischia di diventare una firma stilistica che può portare a effetti opposti rispetto a quelli desiderati. A titolo di confronto, si pensi a quello che probabilmente è il migliore discorso del Dottore, quello di Dodici durante The Zygon Inversion: la differenza di effetto tra quel discorso e i vari cui abbiamo assistito in questa undicesima è netta, non per i contenuti, bensì per come sono stati inseriti nella vicenda; se il Dottore di Capaldi si trovava a pronunciare quelle parole in un momento di grave crisi e rabbia e lo spettatore percepiva nettamente il pathos della scena, nei vari momenti della stagione attuale si intuisce in anticipo che un dialogo o una situazione sono esclusivamente propedeutici a una particolare frase o a un breve monologo di denuncia. Il risultato, come dicevamo, è che si percepiscano come oggettivamente giusti, ma non li si vivano nel loro pieno coinvolgimento, come invece avvenuto in quell’occasione.

– Non c’è niente di peggio della gente normale che va fuori di testa. Abbiamo vissuto insieme per decadi. Hindu, Musulmani e Sikh. E ora ci viene detto che le nostre differenze sono più importanti di ciò che ci unisce. Come se non avessimo imparato nulla dalla guerra. Non so come possiamo proteggere le persone quando l’odio arriva da ogni lato.
– Beh… tutto ciò che possiamo fare è sforzarci di essere brave persone

Nonostante queste critiche, però, l’episodio funziona e il dramma dell’odio fine a se stesso, della separazione tra noiloro, del tradimento di chi ci era fratello (letteralmente o metaforicamente) giunge violentemente allo spettatore, soprattutto in occasione dei momenti finali, dove mai come ora il famoso everybody lives deve lasciare il passo alla stabilità storica: il dramma della consapevolezza di una morte inevitabile è reso benissimo dal bravo Bradley Walsh, che continua a essere specchio di normalità e saggezza del Team Tardis.

Una chiave minore ma non per questo meno importante è quella che riguarda Yaz e le scoperte relative al passato di sua nonna: ingenuamente convinta di sapere tutto o quasi, la ragazza finisce letteralmente travolta dalle ondate di informazioni di cui non era e non poteva essere a conoscenza, scoprendo nella sua progenitrice un personaggio molto più complesso e con una vita ben poco semplice o lineare.

La sensazione di tradimento che prova inizialmente la ragazza potrebbe sembrare egoista e stupida, ma è invece molto naturale: tutti noi, in qualche modo, ci aspettiamo di sapere tutto dei nostri cari, soprattutto nonni, genitori e fratelli. L’idea che ci siano aspetti della loro vita che, invece, sfuggono alle nostre conoscenze e che potrebbero renderli meno perfetti di come li consideravamo è intollerabile e il più delle volte negata: come, però, giustamente spiega Graham, tutti noi abbiamo mille sfaccettature e spesso non siamo ben consci neanche di noi stessi, figuriamoci degli altri. Venire a conoscenza di certe informazioni può essere difficile se non addirittura controproducente, ma può anche aiutare a imparare ad accettare e amare i nostri cari non solo per il loro ruolo nelle nostre vite, ma anche per ciò che sono come persone e individui.

Una lezione che Yas impara a un duro prezzo emotivo, ma che le permette di trovare una nuova, più forte, unione spirituale con sua nonna.

L’analisi fatta fino a questo punto dovrebbe aver chiarito che questa stagione sta funzionando bene per quanto riguarda la qualità dei singoli episodi, pur con i difetti già citati: la sua struttura verticale, però, comporta dei limiti in tal senso che, sul lungo andare, rischiano di prestare il fianco ad alcune critiche. Se, infatti, una serie con sviluppo orizzontale può ovviare a episodi narrativamente non all’altezza rendendoli comunque chiave dello sviluppo progressivo delle vicende, una prettamente verticale non ha questo lusso ed è costretta, di settimana in settimana, a fornire un pacchetto completo che funzioni in autonomia. Senza nulla togliere a Chibnall e ai suoi colleghi, la possibilità che tutto funzioni sempre perfettamente è bassa e abbiamo già visto come solo episodi con una base narrativa ed emotiva adeguati riescano a dare il meglio. Mancano quattro (o cinque, dicono alcune voci) episodi alla fine della stagione e potrebbe non esserci uno speciale natalizio: perché, alla fine, lo spettatore si possa dire veramente soddisfatto è necessario che in qualche modo le fila vengano tirate e che non rimanga il sapore di tanti assaggi senza mai aver ricevuto la portata principale.

Ci auguriamo di cuore sia così, perché questo Dottore e questo cast meritano il maggior entusiasmo possibile.

E, nota personale di chi scrive, vogliamo molto più Tardis.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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