The First: Su Marte?

Quando a scuola arrivava il momento del compito di italiano, uno degli errori più pericolosi era di finire fuori tema, scrivendo pagine e pagine – anche ben strutturate ed elaborate – di qualcosa che nulla o poco aveva a che vedere col tema originale: se The First fosse un compito del genere, Beau Willimon – già creatore di House of Cards – riceverebbe un giudizio che suonerebbe come “scritto bene, a tratti interessante, ma sei andato completamente fuori tema” e questo è il problema principale, per quanto non l’unico, della serie Hulu.

Pubblicizzata come “serie che avrebbe raccontato della prima missione umana su Marte”, con tanto di razzo in locandina, The First è invece un drama che utilizza la potenziale missione su Marte unicamente come elemento catalizzatore di problematiche personali dei vari componenti della seconda missione, con attenzione principale al protagonista Tom Hagerty, cui presta il volto (e i pompatissimi muscoli) Sean Penn. Partendo dalla tragedia mostrata nella premiére, quell’esplosione della Providence I che ricorda troppo la tragedia del Columbia al punto da diventare un colpo di scena quasi prevedibile, la serie percorre i 23 mesi che separano quell’istante con la successiva potenziale finestra di lancio e ultima occasione per Vista, società responsabile di questa enorme sfida, di lanciare una nuova epoca pionieristica per la razza umana.

Superando il legittimo fastidio cui va incontro lo spettatore nel rendersi conto di non trovarsi davanti a otto episodi ambientati durante la missione, l’idea di mostrare le difficoltà e le sfide precedenti poteva essere interessante, ma la piega decisa dallo showrunner è ancora diversa: se, infatti, ci sono momenti con focus su problematiche tecniche o politiche (con tanto di proteste del pubblico e dei politici contro la spesa di soldi per l’esplorazione spaziale) è innegabile che l’attenzione principale sia rivolta ai problemi personali, facendo quindi diventare la missione su Marte uno sfondo quasi mai fondamentale di drammi che sarebbero in qualche modo esistiti comunque. Sarebbe bastato sostituire Marte con una missione di pace in un paese in guerra o con una missione di lunga durata e ad alto rischio sul nostro pianeta e nulla sarebbe cambiato nella narrazione.

L’esempio più evidente è quello del protagonista. Militare, esploratore, rimasto a terra a causa dei problemi familiari nati dal suicidio della moglie e dalla conseguente tossicodipendenza della figlia: una serie di cliché cui la narrazione aggiunge poco e in cui Sean Penn, pur fornendo un’ottima interpretazione, è troppo invasivo per far risaltare il personaggio. Un personaggio che, va detto, non eccelle per carisma e fonte di empatia, concentrato com’è nell’autocommiserazione e nella volontà di partire nonostante continui a ripetersi che il benessere di sua figlia è più importante: un’ipocrisia che viene smascherata dalla ragazza stessa, uno dei pochi personaggi che – pur non sempre gradevoli – riesce ad avere un’evoluzione interessante nel corso degli otto episodi.

La difficoltà nel percepire l’evoluzione dei personaggi nasce anche dalla scelta di focalizzare ogni episodio su un periodo diverso e distante mesi dal precedente: il secondo si svolge a 23 mesi dal potenziale lancio, il terzo alcuni dopo e via dicendo in questo modo. Questo e il concentrarsi di volta in volta sui problemi di membri diversi della missione portano lo spettatore a non empatizzare con quasi nessuno, a perdersi le crescite personali e nelle dinamiche e, pertanto, a essere costretto a “prendere atto” di quanto avviene, accontentandosi di quella curiosità un po’ morbosa che porta a chiedersi se avverrà qualche nuova tragedia entro la fine della stagione.

I temi trattati sono svariati, ma il modo in cui vengono affrontati finisce per essere quasi sempre troppo superficiale e limitato al singolo episodio, portando ogni momento di crisi a risolversi con poche parole quasi mai apparentemente sufficienti a ottenere l’effetto che viene loro assegnato. Negli otto episodi, oltre al già citato rapporto conflittuale tra padre e figlia degli Hagerty, vengono affrontate le difficoltà di un colonnello di colore, donna e gay, che viene scavalcato dal comandante Penn/Hagerty, i contrasti di una coppia il cui membro femminile non si rassegna alla potenziale esclusione dalla missione e non ha alcuna voglia di avere un figlio, il – mille volte già visto – dramma del componente che scopre di non poter partire per problemi di salute e così via. Un minestrone che ha dentro un po’ di tutto ma che, proprio per questo, finisce per non avere un sapore ben definito.

Uno dei personaggi più interessanti finisce così per essere Laz Ingram (Natascha McElhone), CEO di Vista, che fungendo da filo comune dell’intera stagione si delinea come il personaggio con una maggiore crescita personale ed emotiva, esulando dal ruolo di capo senz’anima e assumendo una serie di sfaccettature che la rendono molto più tridimensionale di buona parte dei comprimari.

Passando al comparto tecnico, le sensazioni e i risultati sono – di nuovo – contrastanti: la parte meramente scientifica è ben realizzata e, pur semplificando molto, riesce a rendere l’idea delle complessità di una missione del genere. I due momenti speculari delle partenze, nel primo e nell’ultimo episodio, trasmettono fisicità, realismo e – soprattutto l’ultimo – pathos crescente. D’altro canto, però, le velleità pseudo-artistiche presenti in tutti gli episodi finiscono per essere troppe volte pretenziose se non addirittura fastidiose: una per tutte è rappresentata dal personaggio – accreditato come Lawrence, ma apparentemente mai citato in modo esplicito – che compare con brevi inquadrature e una voce fuori campo che dovrebbe essere evocativa ma finisce per risultare inquietante e minacciosa; le sue brevissime scene ci mostrano piccoli passi di riparazione di un telefono a monete e, nell’ultimo episodio, il suo alzarsi e aprire una porta illuminata.

Se leggendo questo paragrafo state facendo un’espressione perplessa sappiate che si tratta della stessa di chi ha visto i momenti in questione. Tanto è poco chiaro il ruolo del personaggio e di queste brevi scene – salvo l’aggiungere un commento pseudo-filosofico agli eventi dell’episodio – che chi scrive ha più volte temuto che tal Lawrence finisse per essere un sabotatore o peggio con effetti sul finale della stagione: così non è stato, fortunatamente, ma il punto interrogativo su ruolo e necessità di questi interludi rimane enorme.

È questa natura ibrida della serie che ci porta ad avere sentimenti contrastanti nei confronti di un episodio come Two Portraits, il quinto, che si concentra sulle vicende della famiglia Hagerty, sul dramma della moglie e dei rapporti all’interno della famiglia: un episodio esteticamente splendido e ben scritto, essenziale anche dal punto di vista visivo con scene ridotte all’osso e una resa quasi teatrale, che ben racconta (letteralmente) a pennellate momenti, crisi, disperazioni, cadute e sentimenti. Preso a sé è un piccolo gioiello di regia e recitazione, ma incluso in una serie che aveva premesse così diverse finisce per rappresentare un contrasto che può legittimamente irritare lo spettatore.

Non si può oggettivamente dire che sia una serie brutta: quello che si prefigge lo fa, a volte bene, altre peggio e soprattutto con un’estrema lentezza. Ma ciò che si prefigge non è ciò che promette e questo è un peccato che non si può facilmente perdonare. Nonostante questo, la visione scorre e l’interesse nel vedere ciò che verrà proposto di episodio in episodio fa sì che il binge watching sia più semplice di quanto i nostri commenti potrebbero far pensare: bisogna accettare, va ribadito, di vedere qualcosa che non era ciò che si pensava e che troppe volte sembra più autocompiaciuta del dovuto.

Va infine riconosciuto che gli ultimi venti minuti dell’episodio finale, che rappresentano (finalmente) il momento della partenza, sono scritti e resi benissimo, riuscendo nell’intento di generare tensione e aspettative nello spettatore, che fino all’ultimo temerà che possa accadere qualcos’altro. Nel momento in cui scriviamo non sappiamo ancora se ci sarà una seconda stagione che, nel caso, potrebbe finalmente darci ciò che ci aspettavamo da questa. Certo, bisogna decidere di fidarsi e se si è stati ingannati una volta non è detto né dovuto che si desideri farlo.

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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