Philip K. Dick’s Electric Dreams: tutti noi siamo altri

Dopo adattamenti cinematografici più o meno riusciti (di cui Blade Runner rappresenta un discorso molto a parte), sembra che le opere di Philip K. Dick stiano trovando la propria sede definitiva al di fuori della carta stampata nei prodotti seriali. Dopo il buon adattamento di The Man In The High Castle  e grazie alla rinnovata attenzione verso le serie antologiche, Channel 4 Amazon hanno deciso di sfruttare lo sterminato materiale originale dell’autore per cavalcare e creare Philip K. Dick’s Electric Dreams;dato l’enorme successo di una serie come Black Mirror  stupisce che l’idea non sia nata prima: i racconti di Dick, così come i suoi romanzi, sono spesso caratterizzati da una capacità di mettere in discussione status quo, progresso, dinamiche sociali fino ai veri e propri concetti di realtà e umanità tali da essere sostanzialmente una fonte inesauribile di materiale per una serie antologica e distopica.

Il rilascio della serie è stato piuttosto atipico: dopo la messa in onda dei primi sei episodi da Channel 4 nell’autunno 2017, l’intera stagione è stata rilasciata a gennaio su Amazon Prime Video e, infine, i restanti quattro sono stati proposti da Channel 4 tra febbraio e marzo, senza contare che la numerazione degli episodi è diversa, il che non è di per sé un problema data la natura antologica del prodotto, ma può generare situazioni curiose quando si parla della seria con gli amici e si cita il numero di un episodio.

Quello che colpisce del prodotto, nel suo complesso, è l’elevata qualità in tutti i reparti: gli sceneggiatori sono riusciti a prendere i racconti originali, estrapolarne i punti salienti e riscriverli per un pubblico moderno, facendo spesso leva su nuove paure e, tristemente, sulla realtà attuale. Non sempre si è mantenuta pedissequamente la fedeltà ai racconti originali, cosa che avrebbe rischiato di portare a risultati ben più mediocri a causa della differenza di media e di epoche: si è saggiamente optato invece per un’ispirazione seguita da un distacco o un adattamento più o meno netti a seconda dei casi. Il cast, ovviamente sempre diverso, sfoggia nomi del calibro di Bryan CranstonAnna PaquinRichard Madden Steve Bushemi e la regia è sempre perfettamente tarata per lo specifico episodio, dando l’impressione di vedere un prodotto diverso a ogni visione ed evitando, così, il rischio di un fastidioso disallineamento tra la storia narrata e la sua resa visiva.

Il confronto con Black Mirror, per quanto spontaneo, è anche parzialmente fuorviante, soprattutto nella narrazione: dove la serie di Netflix ha fatto come propria la volontà di – il più delle volte – prendere a pugni nello stomaco lo spettatore, Electric Dreams punta a inquietarlo in modo più sottile e subdolo; ci sono episodi più vicini alla fantascienza classica dove la reazione è più un rumore di fondo, ma nella maggior parte dei casi l’inquietudine nasce spontanea e non sorge da ciò che viene mostrato, bensì da ciò che viene trasmesso, una differenza sottile che permette alla serie ispirata a Dick di costruirsi una propria nicchia adeguata, a metà strada tra la modernità cruda di Black Mirror e la fantasia a volte un po’ ingenua ma spesso spaventosa di The Twilight Zone.

È normale e prevedibile che un’antologica come questa presenti episodi più o meno nelle corde di uno spettatore rispetto a un altro e, opinione personale di chi scrive, i risultati migliori si hanno nel momento in cui si sfruttano appieno le tematiche più care a Dick sulla definizione di realtà, società e individuo: difficile, però, che pur trovando episodi più deboli o meno interessanti si finisca per annoiarsi o non aver voglia di vederne un altro.

A seguire cercheremo di fornire una breve panoramica dei dieci episodi, così da focalizzarne gli elementi di nota e, magari, indirizzare lo spettatore su quelli a lui più affini: si tenga conto che seguiremo, a tal scopo, l’ordine di messa in onda di Channel 4 che su più siti viene considerato come ufficiale. Resta inteso che, essendo i titoli uguali anche su Amazon Prime, gli episodi saranno adeguatamente riconoscibili. E se la curiosità di leggere i racconti originali diventasse impellente, Fanucci ne ha recentemente proposto una nuova edizione, il cui link trovate alla fine dell’articolo.

The Hood Maker

Come già detto nell’articolo dedicato, The Hood Maker è principalmente un poliziesco con note fantascientifiche, in cui uno dei ruoli principali è affidato a Richard Madden (Game of Thrones). Il fatto che sia stato il primo a essere trasmesso su Channel 4 è, a nostro parere, piuttosto significativo: non si tratta sicuramente dell’episodio più incisivo della stagione, ma lasciandosi avvolgere dalle trame arrivano allo spettatore gli ingredienti di quelli che saranno alcuni dei temi fondamentali. La distinzione tra un noi e un loro definiti secondo i casi e le necessità, l’oppressione più o meno evidente di un gruppo di persone, ma anche la natura della fiducia e della consapevolezza. In un periodo, poi, in cui il concetto di privacy è quanto mai attuale, il focus al riguardo ottenuto grazie all’utilizzo dei telepati Teeps non può non far porre domande alle quali si fa fatica a rispondere. Se ci è possibile empatizzare per un gruppo di individui oggettivamente ghettizzati e sfruttati a causa dei loro poteri, quegli stessi poteri pongono questioni e inquietudini che ci rendono comprensibile, sebbene non accettabile, l’astio degli umani normali. E, in tutto questo, rimane in sospeso una domanda: quando ci si può davvero fidare di qualcuno?

Ispirato a “The Hood Maker”/”Il fabbricante di cappucci” del 1955

Impossibile Planet

Se dovessimo identificare l’episodio più debole o, magari, meno interessante della stagione, probabilmente indicheremmo Impossible Planet, per motivi assolutamente discutibili. Pur fregiandosi, infatti, della splendida interpretazione della grande Geraldine Chaplin, la vicenda è per buona parte dello svolgimento focalizzata su una truffa ai danni dell’anziana protagonista e sul suo desiderio di vedere prima di morire il pianeta Terra, nonostante questo sia andato distrutto e se ne siano perse le tracce. Come sempre, in Dick, la trama superficiale diventa una scusa per uno sguardo oltre e, in questo caso, l’oltre è rappresentato dalla natura dell’amore e della fede, della contrapposizione tra la cieca fedeltà a un sogno e la realtà che cerca di strapparci ogni possibilità di speranza. Un intento importante, quindi, che però risulta troppo marginale e – forse – forzato per arrivare completamente a segno. Non brutto, ovviamente, ma non ci è sembrato all’altezza degli altri pur essendo, ironicamente, uno dei più fedeli al materiale originale.

Ispirato a “Impossible Planet”/”Il pianeta impossibile” del 1953

The Commuter

Sognare qualcosa significa desiderarla? Pensare a quanto la nostra vita sarebbe più facile se non fossero avvenuti certi eventi equivale a ritenere quella vita più desiderabile della nostra? Ci fermiamo mai a pensare a cosa, di ciò che siamo, perderemmo se perdessimo certi nostri dolori passati o presenti? Se, ad esempio, il non dover vivere col dramma di un figlio problematico volesse dire non provare mai l’amore e la felicità nati con quel figlio, ne varrebbe la pena? È possibile avere la felicità e la gioia senza i dolori che prima o poi ci raggiungono? E, se una certa serenità è raggiungibile, è anche preferibile?
The Commuter non ci dà risposte, ma queste sono alcune delle domande che ci pone e starà a noi provare a trovare la nostra risposta. Ed Jacobson, col volto dell’incredibile Timothy Spall, e la nostra amata Tuppence Middleton hanno le loro, differenti eppure giuste per entrambi.
Forse l’episodio più intimista, di certo quello che ha, e necessitava, meno effetti speciali.

Ispirato a “The Commuter”/”Il Pendolare” del 1953

Crazy Diamond

Un mondo in scadenza, quello di Crazy Diamond. Coste che vengono velocemente erose, prodotti alimentari che deperiscono e marciscono nel giro di poche ore, androidi la cui vita ha una durata limitata (ricorda nulla?), ibridi chimerici creati in laboratorio e trasformati in servitori trattati più o meno decentemente. E, in tutto questo, esseri umani tanto incasellati nelle proprie vite da sopravvivere sognando di vivere. Un episodio dall’ambientazione e dalla visività surreali, quasi Coheniane, con uno Steve Buscemi perfettamente calato nel ruolo di uomo di mezza età tentato da una Jill, un’androide col desiderio di vivere di più e la volontà di ottenere ciò che desidera a tutti i costi. Ma sognare e realizzare sono cose diverse e si finisce per scoprire il piacere nelle piccole cose, come il prossimo respiro o un 33 giri integro.
Il clima noir si mischia all’inquietudine dell’inesorabilità della fine e all’estraniamento che può nascere dal vedere incroci tra umani e suini. Sicuramente l’episodio più atipico, se questo aggettivo può applicarsi a questa serie.

Ispirato in modo estremamente vago a “Sales Pitch” / “Vendete e Moltiplicatevi” del 1954.

Real Life

Uno degli argomenti più amati e approfonditi da Dick. Cos’è la vita reale? Cos’è la finzione? E se esistesse un dispositivo in grado di farci vivere una vita diversa al punto da farcela sembrare giusta quale sarebbe la realtà? È più reale una vita così perfetta da sembrare immeritata o una così dolorosa da sembrare una punizione per una grave colpa?
Anna Paquin e Terence Howard sono letteralmente due facce della stessa persona. Una reale, l’altra no. O la verità è ancora un’altra?

Ispirato a “Exhibit Piece” /  “Un pezzo da museo” del 1954

Human Is

Bryan Cranston porta in vita un doppio personaggio – sfruttando l’esperienza pluriennale di Breaking Bad – in uno degli episodi più fedeli al rispettivo racconto originale. Di nuovo domande fondamentali: cosa ci rende umani? Il DNA? L’aspetto esteriore? La capacità di empatia? Ognuno di noi ha una risposta diversa e, di sicuro, in un racconto di fantascienza quasi classica non arriverà in forma lineare o immediata, eppure Vera (Essie Davis), moglie abusata dal personaggio di Cranston, un’idea piuttosto precisa se la fa, e noi non possiamo certo darle torto. Da segnalare anche la presenza del grande Liam Cunningham nel cast dell’episodio.

Ispirato a “Human Is” / “Umano è” del 1955

The Father Thing

Vedere questo episodio non può non far tornare alla mente classici come “L’invasione degli ultracorpi“, col cliché della storia di sostituzione progressiva della razza umana da parte di alieni più o meno ostili. Se in Human Is tale sostituzione diventava il punto su cui porsi domande sulla propria umanità, qui abbiamo uno svolgimento molto più classico attualizzato ai nostri giorni, con tanto di hashtag e uso della rete per organizzare una resistenza. Eppure, pur nella sua apparente semplicità, The Father Thing ci apre un altro spiraglio: quello della sensazione di straniamento che può provare un figlio nel momento in cui scopre che i propri genitori non sono ciò che sembrano, nelle loro imperfezioni e fallibilità. La non certo velata metafora del padre sostituito da qualcos’altro è fornita in piena luce, eppure ha dell’ironia: “altro”, in questo caso, è il genitore che improvvisamente è disposto a rimanere, in un ribaltamento di ruoli minimo ma di certo ironico.

Ispirato a “The Father Thing” / “La cosa-padre” del 1954

Autofac

In un futuro più o meno lontano, due attività umane hanno raggiunto l’apice: la guerra e la capacità di produrre beni di consumo. Quando la prima delle due porta allo sterminio di buona parte della razza umana, la seconda non si arresta, dimostrando quanto inutili siano diventati i creatori stessi: fabbriche totalmente automatizzate continuano a produrre incessantemente per una popolazione che, ormai, non esiste praticamente più. E, per aggiungere il danno alla beffa, la continua produzione finisce per inquinare e rendere tossico l’ambiente per i pochi superstiti che cercano di sopravvivere in ciò che è rimasto. Una semplice denuncia contro la guerra e il consumismo, quindi? L’unica domanda dell’episodio riguarda cosa lasciamo dietro di noi una volta che saremo spariti? Forse, ma sappiamo che Dick (come i suoi degni successori) preferisce più strati di lettura e anche qui le sorprese non mancano, ma sarebbe impossibile da parte nostra aggiungere altro senza rovinare la visione.

Ispirato a “Autofac” del 1955

Safe and Sound

Uno dei motivi per cui preferiamo l’ordine di messa in onda di Channel 4 è che gli ultimi due episodi sono quelli che finiscono per dare allo spettatore il pugno nello stomaco più violento e inaspettato a causa della loro estrema attualità e applicabilità al mondo che conosciamo. Safe and Sound è un esempio da manuale di come la convinzione possa superare i fatti, di come sia sufficiente ripetere che c’è un pericolo per alimentare non solo il timore dello stesso, ma la convinzione che ci siano le prove della sua esistenza. Poco importa che queste prove siano loro stesse manipolate ad arte per autoalimentarsi, perché nel momento in cui si accetta indiscriminatamente il messaggio che per essere sicuri bisogna rinunciare alla proprio privacy il gioco è fatto e nessuno, mai più, potrà essere davvero sicuro. Una narrazione efficace e terribile che, appoggiandosi sul comune senso di estraniazione di un’adolescente outsider, ci racconta qualcosa di ancora più grave e importante. Probabile vi risuonino in mente le parole Cambridge Analytica, guardando questo episodio.

Ispirato a “Foster, you’re dead!” / “Foster, sei morto!” del 1955

K. A. O.

Kill All OthersIn una finta democrazia futuristica dove alle elezioni si presenta e può essere eletto un solo candidato, in una mega nazione che comprende Canada, Stati Uniti e Messico, uno dei messaggi trasmessi dal candidato nello stupore del protagonista è questo: Kill All Others. Uccidete tutti gli altri. Ma chi sono gli altri? Perché bisognerebbe uccidere gli altri? Nessuno si fa questa domanda, tranne una persona che, proprio per questo motivo, diventa un altroLa fobia del diverso portata all’estremo, senza più necessità di finte etichette applicate a seconda delle necessità. Perché dover sforzarsi a decidere se odiare una razza, un genere, una sessualità, una religione, quando basta definire qualcuno come altro per poterlo legittimamente sterminare? Perché indirizzare un astio definito, quando è sufficiente scatenare l’odio verso chiunque si ponga domande? Kill All Others è il colpo basso finale della stagione, il vedere su schermo qualcosa che ci circonda tutti i giorni privato della maschera che chiunque facilmente indossa per giustificare il proprio odio. Uccidete tutti gli altri, ma ricordate che prima o poi sarete gli altri di qualcuno.

– Quello che vorrei sapere è chi sono gli altri
– Se sei un Altro, secondo me sai di esserlo. Loro sanno chi sono.
– Dai, ragazzi, importa davvero? Stiamo davvero parlando di uccidere gente?

Ispirato a “The Hanging Stranger” / “L’impiccato” del 1953

Aries

Finché potrò continuerò ad osservare. Finché osserverò continuerò ad imparare. Finché imparerò continuerò a crescere. Finché crescerò continuerò a vivere.

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