Bassa voce
La fine di maggio e l’intero mese di giugno corrispondeva, quando vivevo coi miei, al periodo in cui si poteva iniziare a vivere di più la casa in campagna: non che prima non ci si andasse, anzi, ma è innegabile che la sera si stesse per lo più in casa, magari a guardare la tv o a giocare a carte.
Ma quando finiva la primavera e, poi, con l’arrivo dell’estate, le cose cambiavano.
Le giornate più lunghe permettevano di prendersi tempi più rilassati, si cenava sempre abbastanza presto, ma dopo cena c’era ancora luce e, soprattutto, c’era un clima che permetteva di stare fuori a godersi il crepuscolo e l’arrivo della sera.
Ricordo benissimo quei momenti. La luce che diminuiva, la brezza che pian piano si sentiva, i dettagli di ciò che ci circondava che andavano piano dissolvendosi.
Si stava seduti in cortile, tipicamente, si facevano due passi dietro casa con Lupo e Lucky, o si giocava a bocce sempre nel cortile, un cortile così pieno di sassi e di buche che si imparavano perfettamente le leggi della fisica applicate alle sfere sui piani inclinati: per me era quello il modo di giocare a bocce, i campi normali mi sembravano noiosi.
Oppure, dicevo, seduti, che sul dondolo o sulle poltrone da giardino, magari sotto l’enorme albero di gelso su cui una volta mio padre aveva montato la rete di un letto per farci i pisolini pomeridiani, o ancora sull’amaca che mi ero fatto montare negli ultimi anni.
Seduti, al crepuscolo.
A chiacchierare, a sparare scemate, a respirare.
Ricordo che ai tempi, io adolescente sfigato, pensavo a quanto mi sarebbe piaciuto vivere momenti del genere con la ragazza che, chissà, forse un giorno sarebbe arrivata: non è successo così spesso, negli anni. Di sicuro non lì. Raramente altrove.
Eppure erano momenti di pausa da tutto. Non si poteva leggere perché la luce non bastava (e accendere i lampioni significava attirare zanzare). Non si urlava, perché il crepuscolo chiama la voce bassa. Non c’era fretta. C’era solo lo stare lì in quel momento.
Prima c’era stata la giornata più o meno attiva, dopo ci sarebbe stata la serata in casa (o, raramente, in giro), una volta fattosi buio, ma quell’istante, quell’ora, era sufficiente a se stesso.
Non che succedesse solo lì. Succedeva, in modo diverso, quando si era in vacanza al mare, ad esempio.
Era il donarsi il regalo più prezioso: il tempo per respirare, il tempo per godersi il non fare nulla se non essere insieme.
Così, in questo periodo dell’anno, quando le finestre aperte portano in casa quella stessa brezza, quando la luce è proprio quella lì, la voglia di avere un gelso, o una veranda o una panchina diventano impellenti. Soprattutto quando la vita ti svuota di energie, quando gli ostacoli si sovrappongono, quando ti sembra che i tuoi sforzi non siano mai riconosciuti a sufficienza, quando tutto ciò che vorresti è donarti il momento di assoluta e futile pace.
Ma, in parte, mancano i luoghi. E mancano le persone. E no, non è la stessa cosa da soli. Non sempre, almeno. Non in quel momento del crepuscolo che chiama la bassa voce.