Tutta la magia
Amo il teatro da decenni, ricordo benissimo le prime volte in cui ci andai (se escludiamo qualche exploit per bambini alle elementari): ero alle superiori, al triennio, e la mia professoressa di italiano (che aveva parecchi difetti) aveva anche il pregio di amare il teatro e organizzare pomeriggi a vedere spettacoli. Fu così che vidi la prima rappresentazione del mio Cyrano (col grandissimo Franco Branciaroli, al Carcano), ma anche opere di Pirandello e Goldoni, per dire i primi che mi vengono in mente.
Il mio primo vero incontro con Shakespeare (ricordiamoci che io studiavo in un Istituto Tecnico) fu invece il testo del Giulio Cesare letto in poche ore un pomeriggio prima di Pasqua in seconda superiore: ricordo l’entusiasmo leggendo il monologo di Antonio davanti al popolo di Roma e la frustrazione di non poterlo condividere con nessuno. Fu amore.
Non sono in grado di contare la quantità di spettacoli a cui sono stato: grandi produzioni, minuscole, professionali, amatoriali, meravigliose e orribili, coinvolgenti e deludenti; potrei raccontare aneddoti, stranezze, momenti memorabili e altri che vorrei dimenticare, ma non è lo scopo di questo post.
Oggi mi piacerebbe spiegare uno dei tanti motivi per cui amo il teatro.
Chi non lo frequenta molto o chi ha letto solo i testi potrebbe pensare che una qualsiasi opera teatrale sia contenuta interamente nel testo e, ovviamente, nell’interpretazione degli attori guidati dal regista: niente di più falso o, meglio, niente di più incompleto. La parola chiave sta in quell'”interamente”. Un’opera teatrale è, sì, il testo, ma è anche il modo in cui la mimica interagisce con quel testo, è l’espressione degli attori, è la scenografia, è il come il regista e gli interpreti vanno a riempire gli spazi vuoti del testo; perché di spazi vuoti, in un testo teatrale, ce ne sono innumerevoli, basta saperli cercare e interpretare.
Facciamo un esempio immediato: Romeo e Giulietta, una delle opere di Shakespeare più rinominate e, al contempo, una di quelle meno realmente conosciute e, soprattutto, che meno amo. Il testo è molto lineare e sembrerebbe lasciare poco spazio alla fantasia: di messe in scena ne abbiamo viste tante, tutte più o meno fedeli, tutte più o meno riuscite. Poi arriva qualcuno come quel genio di Kenneth Branagh, che ogni volta che mette piede su un palco o alla regia sa esattamente cosa sta facendo. Sir Branagh si accosta al dramma e prende alcune decisioni: anzitutto chiama Derek Jacobi a interpretare Mercuzio; nessuno aveva mai preso in considerazione che Mercuzio potesse essere non coetaneo di Romeo, invece Branagh lo fa diventare un dandy ben oltre la mezza età: occhio, non gli cambia neanche mezza battuta, ma la fisicità, le inflessioni e il modo di recitare fanno sì che guardandolo si riesca solo a dire “ecco, Mercuzio è esattamente così, non potrebbe essere diversamente”.
Per non parlare di Giulietta (Lily James) che, sul balcone, compare con un fiasco di vino e si ubriaca: di nuovo, non vengono cambiate le battute, non viene cambiato il senso, ma ora il personaggio è più reale, più completo, più divertente, così come più divertente e simpatico finisce per essere Romeo (Richard Madden) soprattutto nelle interazioni con gli altri personaggi.
Branagh è riuscito a farmi divertire vedendo Romeo e Giulietta, un’impresa più unica che rara, il tutto senza variare di una virgola il testo.
E sempre in tema shakespeariano pensiamo ad Amleto. Negli ultimi anni ne ho viste almeno tre versioni, le ultime delle quali a teatro a Londra, una interpretata da Cumberbatch in una produzione enorme e una da Andrew Scott (ironia della sorte), in una messa in scena intima e dettagliata. Il testo è lo stesso, ovviamente (anche se quello di Cumberbatch è stato un po’ limato), la resa è invece completamente diversa.
Cumberbatch è un Amleto arrabbiato, alla ricerca di vendetta, in alcuni momenti calcolatore: la sua follia è recitata, la sua voglia di vendetta è inesorabile. La sua Ofelia è (difetti dell’attrice a parte) debole, poco incisiva, guarda il mondo attraverso una macchina fotografica finché il mondo se la porta via (sì, una macchina fotografica: non c’è naturalmente nel testo; gli spazi, ricordate?).
Scott cede alla follia. Il suo Amleto impazzisce sul serio, trova dei momenti di lucidità, ma ciò che gli accade gli fa perdere la ragione. Il suo rapporto con Ofelia è di amore e passione, Ofelia è una donna in questo caso molto più forte, ma si spezza vedendo quella follia e perdendo il padre. Non è passiva, ma soccombe nel cercare di resistere.
Continuo a ripeterlo: il testo è identico ma le interpretazioni ci regalano letture splendidamente diverse.
Il castello di Danimarca di Cumberbatch è imponente, ha scalinate, parapetti, lo spettro compare in lontananza.
Quello di Scott è opprimente e lo spettro si fa vedere nelle segrete, attraverso schermi di sorveglianza che generano un’inquietudine difficilmente descrivibile.
Sono la stessa storia eppure sono storie magnificamente diverse.
Potrei andare avanti ore, a costo di annoiare con un post ancora più lungo, ma il concetto mi sembra ben chiaro.
Non è il testo a fare il teatro, o meglio, non è solo il testo a fare il teatro. Il testo è la base, il terreno seminato, ma il raccolto sarà tutto in mano a chi quel terreno lo curerà, lo amerà, lo renderà suo.
Il teatro si semina nel testo, ma cresce e fiorisce negli spazi tra una parola e l’altra.
Lì, in quegli spazi, c’è tutta la magia.