Percezioni
Quando aprii questo blog e, a partire da allora, per molti anni a seguire, evitai volontariamente di associarlo alla mia identità “reale”. Soltanto gli amici più stretti ne conoscevano l’esistenza, mentre gli altri e i conoscenti no.
I social, all’apertura, non erano così diffusi e quando invece lo divennero, scelsi per una buon lasso di tempo di condividere su Twitter, dove usavo quasi lo stesso nick, ma non su facebook, dove invece avevo nome e cognome.
I motivi erano molteplici: da un parte l’ovvia possibilità di parlare più liberamente senza che mi si conoscesse; l’anonimato o, comunque, l’incognito danno una libertà che nome e cognome, per ovvi motivi, tolgono.
In secondo luogo ma per certi versi molto più importante c’era il desiderio di scoprire come sarei “arrivato” a chi non mi conosceva e fosse stato costretto (se l’avesse desiderato) a scoprirmi solo attraverso le mie parole.
Poi, anni dopo, ho deciso di allentare la regola ed è ormai un bel po’ che condivido i post anche su Facebook. Un po’ perché, ovviamente, la condivisione su un tale social permette una maggiore diffusione, ma anche perché mi sono reso conto che un mezzo come un blog può dare luce diversa su chi scrive anche a chi lo conosce o pensa di conoscerlo.
È innegabile che la nostra complessità (e qui potrei anche riallacciarmi al discorso di ieri sera) faccia sì che chiunque si interfacci con noi riesca a percepire solo alcuni aspetti: magari qualcuno ne assimilerà di più, qualcuno solo uno o neanche quello, difficilmente ci sarà chi li comprenderà per bene tutti; ed è interessante, anche se a volte emotivamente provante, scoprire chi ci vede in un certo modo e chi in un altro e in che modo si sono formati questa idea.
Ovviamente io in primis sono stato visto in molti modi, alcuni molto realistici, altri palesemente infondati, altri ancora in un punto indefinito tra i due estremi: modi che, fusi insieme, possono dare un quadro interessante non solo di chi viene visto, ma anche e soprattutto di chi guarda.
In fondo, ciò che notiamo negli altri è, di solito, un aspetto sui quali siamo sensibili: sia esso perché è parte di noi o perché lo detestiamo con tutti noi stessi.
Ho perso il conto di quante volte mi è stato detto che ero tanto “buono” e delle altrettante in cui ho cercato di spiegare che non era esattamente così.
Sono stato visto come sicuro di me, simpatico, odioso, arrogante, presuntuoso, rigido, disponibile, antipatico, secchione, self-made, illuminato, invidioso.
Anche razzista. Sì, giuro, a me. Tempo fa nei commenti su questo blog.
Non mi interessa stare qui a sindacare su quali di questi (e mille altri aggettivi) siano veri e in che misura, ma mi interessa notare quanto alcuni di questi siano totalmente o quasi incompatibili.
Eppure c’è chi li ha pensati.
Qualcuno avrà avuto ragione, qualcuno torto, qualcuno in parte entrambe le cose.
Tutti avranno avuto in comune una cosa: la convinzione di aver visto giusto.
Faccio un altro esempio che, in realtà, è lo spunto da cui sono nate queste riflessioni.
L’altra sera, durante la cena di cui parlavo ieri, è venuta fuori una vicenda che accadde quando ero, mi sembra, in prima o seconda media. Presi un voto più basso del solito. Non brutto, solo più basso. L’equivalente di un sette invece di un otto.
Piansi, quel giorno, e poi non tornai a casa. Mi ritrovarono ore dopo mentre giravo per il quartiere.
Detta così può sembrare la reazione esagerata e smodata di un ragazzino secchione e fu quello che qualche compagno di classe pensò, rendendomi in automatico più antipatico, soprattutto a chi aveva comunque voti più bassi dei miei.
Non sto biasimando, sia chiaro, sto constatando. Avevamo undici, dodici anni. Ci sta.
Ma il motivo per cui quel giorno non tornai a casa, il motivo per cui scoppiai in lacrime, fu che “non tornare a casa se non prendi almeno un ottimo” era stata la frase di mia madre pochi giorni prima, urlatami dopo un compito in classe in cui avevo preso, di nuovo, un voto lievemente più basso del massimo.
Se non ricordo male, condita anche da qualche dose di sberle.
Soffriva di esaurimento nervoso, ai tempi.
Non giustifico, ma contestualizzo.
Soffriva di esaurimento nervoso, ma quel ragazzino non era in grado di distinguere.
Per lui non c’era scelta, non in quel momento.
Così non tornò a casa ma, non sapendo dove andare, girò per il quartiere e quando degli amici di famiglia lo trovarono fuori da una cartoleria a guardare la vetrina, scoppiò di nuovo a piangere sul loro sedile posteriore.
Ecco.
Quel giorno diventò più antipatico a chi, non sapendo cosa ci fosse dietro, aveva pensato ai capricci di un secchione.
Magari, se si fosse saputo, lo sarebbe stato un po’ di meno, ma andò così.
Tutto questo per ricordarvi che le prime deduzioni non sempre sono le migliori. A volte neanche le decime. E che ciò che vedete potrebbe essere (e in effetti spesso è) la punta dell’iceberg di qualcosa di nascosto, oltre a essere (sempre) specchio di ciò che, in qualche modo, voi stessi siete o vi aspettate.
Non presupponete.
E, se potete, chiedete.
Non avete idea di quanto le cose potrebbero cambiare, per voi e per chi avete di fronte.
Seguo il tuo blog ormai da anni, anche se non commento mai. Volevo ringraziarti per questo post: erano le parole di cui avevo bisogno stasera. Un saluto da Firenze
Beh, sono io a ringraziarti. Mi fa estremamente piacere di essere stato utile. Ricambio l’abbraccio a una città che ho amato e amo molto.
🙂