Nuovi vecchi momenti
In casa mia non c’era la tradizione di fare pizza o focaccia.
Mia madre faceva la pasta, quella sì, orecchiette e quella che chiamava pasta al torchio, rigorosamente a mano a partire dall’impasto, ma focacce e pizze no: quelle erano competenze di alcune zie e mi ricordo che il me stesso bambino si chiedeva perché, quale fosse questa ricetta segreta che loro avevano e mia madre no.
Immagino che fosse solo poco voglia, poco interesse, sa il cavolo cosa: fatto sta che anche per fare quelle che chiamavamo frittelle (e che altro non erano se non lo gnocco fritto o la crescentina) si andava a comprare la pasta di pane già pronta dal panettiere.
Quindi in questa casa non è mai stato prodotto nessun lievitato impastato se non in tempi più recenti ma, anche allora, non era mai stata opera mia.
Fino a oggi, quando ho usato la mia nuovissima planetaria per produrre la mia prima focaccia.
Difficile descrivere la sensazione che ho provato oggi prima preparandola, poi sfornandola e infine mentre la mangiavamo.
Preparare una focaccia, significa prendersi del tempo, curare gli ingredienti, stare attenti affinché l’impasto abbia la giusta consistenza.
Significa cura (e ancora minima rispetto a certi tipi di pane).
Significa attenzione.
Significa ritagliare tempo e spazio.
E poi, una volta tirato fuori l’impasto dalla planetaria, il maneggiarlo è qualcosa di incredibilmente fisico, personale, casalingo.
La prima emozione giunge con la lievitazione: vedere quello che fino a un paio d’ore prima esisteva solo in forma dei suoi ingredienti prendere forma e crescere, raddoppiare, prendere (quasi letteralmente) vita.
È creazione anche questa.
E ancora modellare in teglia, le dita bagnate d’olio, infornare, attendere con pazienza che cuocia, sfornare.
Assaggiare.
Sono gesti che elenco, ma ognuno di questi racchiude la necessità di quell’attenzione di cui parlavo prima, di quel desiderio di creare e di nutrire che già cucinare porta con sé ma che, in qualche modo, diventa elevato di qualche potenza.
Sarà la simbologia del pane come nutrimento di base, sarà l’odore sparso per casa, sarà anche (banalmente) la soddisfazione di scoprire di aver preparato qualcosa di così buono.
Probabilmente sono tutti questi aspetti e altri ancora, ma le parole che mi vengono in mente sono sempre quelle: calore. Casa. Famiglia. Amore.
E, differentemente da molte altre cose, questo non è qualcosa che mi porto dietro grazie a qualche tradizione. No. Questa è, scusate il pessimo gioco di parole, farole del mio sacco.
Ed è forse ancora più bello proprio per questo.
io la chiamo “cucinorterapia”, la metto in pratica quando ho bisogno di rimettere in fila il tutto, quando mi rendo conto che ho 7000 cose aperte e nessuna finita, lì capisco che ho bisogno di staccare e allora mi butto sulla cucina, tritare, impastare, lievitare, aspettare la fine della cottura in forno…tutto serve per riequilibrare la situazione incasinata del momento
Sì, serve sul serio