Crisalide
Dato l’anniversario che ricorrerà tra un paio di giorni, oggi ho deciso di andare a fare una visita al cimitero a mio padre. Dato che c’ero ho girovagato un po’ in macchina in quei posti, nei due paesi vicini, nelle strade che tante volte ho percorso in bici, a piedi e, ovviamente, in macchina, anche in quelle dove andavo con Lupo.
La malinconia, inutile negarlo, è stata molta, simile (credo) a quella di chi ha traslocato una o più volte, abbandonando la casa dove è cresciuto: familiarità e distacco fusi in un insieme piuttosto strano e agrodolce.
Mi capita, a volte, di pensare a quanto certi luoghi ci appartengano fortemente in certi periodi della nostra vita e poi finiscano per diventarci estranei: capita con locali in cui mangiamo spesso o andiamo a bere qualcosa, cinema, librerie, per non parlare degli ovvi posti di lavoro e, di nuovo, case di cui facevo menzione prima.
Quando capita di tornare in quei luoghi possono accadere due cose: se sono cambiati molto, allora l’effetto principale e il sentirsi spersi e, in qualche modo, defraudati delle nostre memorie che, da quel momento, potranno essere vive solo finché le ricorderemo o le vedremo in foto; se invece il cambiamento è meno netto, allora si apre la porta per i ricordi che possono travolgere violentemente e riempire di sensazioni, sorrisi, ma anche magoni; quando poi, ovviamente, si incontrano cambiamenti anche se non radicali, ecco che questi portano a sottolineare maggiormente quanto il tempo sia passato senza di noi e quei posti non siano più nostri.
Oggi è andata un po’ così. Quei luoghi, per loro stessa natura, cambiano molto meno velocemente del mondo a cui sono abituato e passarci ha fatto sì che il passato e il presente si fondessero ed entrassero in contrasto. Vedere immagini dei miei genitori, dei miei cugini, di me stesso, di mio padre, di Lupo, Lucky, Funi, Miele ma anche Zen. Pensare a certi inverni più che alle estati, al finto albero che si vedeva dalla strada, vedere la temperatura a -6 alle 10 del mattino e immaginare mio padre, al telefono, raccontarmi che quella notte aveva ghiacciato tanto da fare uno strato di dieci centimetri di ghiaccio nel secchio del cane e che quindi aveva dovuto romperlo con un martello.
Già.
E pensare a quei momenti porta a ricordare il me stesso di quei vari periodi. Un me stesso che non esiste più. Letteralmente. Sì, certo, quello che ero è diventato base per ciò che sono e ciò che sono non sarà certo perfetto ma è qualcosa di cui cerco di andare il più fiero possibile, ma la base non è esistenza, la base è, se vogliamo, terreno di semina. O concime. I miei io passati si sono decomposti per dare forma a chi sono io ora.
Mi spiace? No, perché l’ho detto, quello che sono è ciò che ho lottato per diventare. Migliorabile, assolutamente sì, ma di certo migliore di anni fa. Non ho dubbi al riguardo.
Ma il fatto che non mi spiaccia per il me stesso odierno non fa sì che non provi tenerezza per quei vari me. Per il ragazzino sfigato e rompipalle che non aveva mai baciato una ragazza. Per quello emozionato di portare a casa, sotto Natale, la sua prima ragazza. Per quello che per provare il videoregistratore guardò di fila Incontri ravvicinati e Ritorno al futuro la notte di Natale. Per quello che arrivò da suo padre un’ora dopo la mezzanotte e scoprì che non lo aveva aspettato per aprire i regali. Per quello che la vigilia doveva comunque essere lì, ma il giorno dopo no. Per quello che fece il pranzo di Natale al cinese. Per quello che odiava giocare a scala 40, ma adorava le serate in cui si giocava tutti insieme a carte. Per quello che aveva talmente tanti sogni da non sapere da dove iniziare. Per quello che era convinto che si sarebbe laureato. Per quello che aveva chili in meno, capelli in testa e ginocchia integre. Per quello che si lasciò conquistare da Zen in una sera di novembre e a dicembre andò a prenderlo e portarselo a casa. Per quello che comprò il regalo di Natale a suo padre il primo anno in cui erano da soli, anche se si erano detti che non l’avrebbero fatto. Per quello che guidò nella nebbia e nella neve per seguire il padre da un ospedale all’altro e che tornò a Milano, alle 4 del mattino, in lacrime non sapendo cosa sarebbe successo poi, ma convinto che tutto sarebbe cambiato.
Sono tutti morti come, alla fine, il bruco in qualche modo muore per la sua metamorfosi e la malinconia, oggi, era per loro. Per quei mille futuri che non sono stati, confluiti in un futuro unico. Non migliore o peggiore, solo reale, non più potenziale.
Non so quanto abbia senso ciò che sto scrivendo, sto solo mettendo nero su bianco sensazioni ed emozioni.
Avevo malinconia stamattina, sì.
Ma chi sono io oggi sa anche quanto sia importante godere della bellezza di ciò che si ha ora, così ho preso la macchina e raggiunto altri luoghi, sicuramente meno miei, ma capaci di trasmettermi quel calore nel freddo circostante di cui avevo bisogno.
Ed è stato alberi, sole, montagne, acqua e due cigni che si sono lasciati avvicinare senza (quasi) ribellarsi e che hanno deciso che sì, in fondo, io non ero di troppo.
Quello era il mio luogo in quel momento.
E lì ho portato con me tutti coloro che sono stato.
E ho sorriso. Per loro, per mio padre, per mia madre. E per me.