Velasquez (o della sete)
Sete.
Di scoperta, di avventure, di esplorazione, di sfide, di vendetta, di soddisfazione.
Quel tipo di sete che in qualche modo guida molti dei personaggi più avvincenti di quelle storie che ci rapivano da ragazzi e, ai più fortunati di noi, anche da adulti.
Che sia un Indiana Jones, un Dirk, Pitt, un personaggio di Salgari o di Stevenson, un Moschettiere o qualcuno uscito da un romanzo di Verne, poco importa: quella sete, magari mista ad altre cose, è lì, presente, pressante.
Ed è una sete che, in realtà, conoscono persone anche molto meno avventurose, quelle che non riescono a fermarsi, non possono accontentarsi, non riusciranno mai a dire “bene, basta così, sono arrivato” perché sanno e sapranno sempre che c’è sempre un nuovo orizzonte verso cui andare, qualcosa di nuovo da vedere, da assaporare, da scoprire o da sperimentare.
La stessa sete, ovviamente fatte le debite proporzioni, che mi ha sempre pervaso e che per troppo tempo ha dovuto essere messa da parte in nome della salvezza e della riparazione dei danni.
Ma la sete non passa, al massimo si tiene a bada finché necessario per poi lasciarla di nuovo libera.
Ed è la stessa sete che sa raccontare bene il professor Vecchioni con la sua Velasquez.
Chi è Velasquez? Se chiedete a uno zingaro ungherese vi dirà che è più vecchio dei vecchi. Se chiedete alla voce narrante vi dirà forse che è il suo capitano, che è l’uomo che l’ha convinto a partire per avventure che oggi giorno li mettono a repentaglio. Se chiedete a lui stesso, probabilmente vi racconterà qualcosa durante una tempesta al largo di Capo Horn.
Ma non vi racconterà mai tutto, perché non ci sarà mai tutto da raccontare: ci sarà sempre e solo da viaggiare e, al massimo, scrivere a casa. Tornare? Sì, potreste voler tornare. Potreste desiderarlo più di ogni altra cosa. Potreste odiarlo perché per colpa sua non potete.
Eppure non gli chiederete mai, davvero, di riportarvi indietro.
Perché ci sarà sempre un nuovo nido di rose in fondo a quell’arcobaleno e voi non vorrete perderlo.
Buon ascolto.
Ahi, Velasquez, dove porti la mia vita?
Un fiore di campo si è impigliato fra le dita,
e tante stelle, tante nelle notti chiare
e mille lune, mille dune da scoprire.
Ahi, Velasquez, non t’avessi mai seguito,
con te non si torna una volta sola indietro
in mezzo ai venti sempre genti da salvare
sei morto mille volte senza mai morire.
Un vecchio zingaro ungherese
di te parlando mi giurò
che c’eri prima di suo padre,
prima del padre di suo padre
più in là nel tempo non andò:
e i cerchi del tuo tronco sono
ferite d’armi e di parole
che mai nessuno vendicò.
Ahi, Velasquez, com’è duro questo amore
mi pesa la notte prima di ricominciare
e tante veglie, come soglie di un mistero
per arrivare sempre più vicino al vero.
Ahi, Velasquez, certe sere quanta voglia,
fermare la vela e ritornare da mia moglie;
e tu mi dici: “fatti scrivere”, è normale,
per te bisogna sempre scrivere e lottare.
E la tempesta ci sorprese
due miglia dopo Capo Horn:
se ne rideva delle offese
in mezzo al ponte si distese
e fino all’alba mi cantò
ragazze, terre, contadini,
da sempre popoli e padroni
fu lì che tutto cominciò.
Ahi, Velasquez, fino a quando inventeremo
un nido di rose ai piedi dell’arcobaleno
e tante stelle, tante nelle notti chiare
per questo mondo, questo mondo da cambiare?
Ahi, Velasquez, ahi, chitarra come spada
mantello di sabbia, orecchio mozzo, antica sfida,
eterna attesa, corda tesa da spazzare
e tanta voglia, tanta voglia di tornare.