Velocità
Anni fa, in una storia piuttosto atipica di un gruppo mutante di nome X-Factor, il grandissimo Peter David spiegò in una sola pagina il motivo del pessimo carattere e dell’arroganza di Quicksilver; per chi conoscesse solo le due incarnazioni cinematografiche in cui il buon velocista è piuttosto simpatico, c’è da spiegare che, al contrario, nei fumetti è sempre stato un personaggio piuttosto spocchioso, irritante e arrogante, poco amato da chi lo circondava, fatta eccezione per sua sorella Wanda e sua moglie Crystal.
Quello che, fino a quella storia, non era mai stato approfondito era il motivo per cui Quicksilver era così.
L’episodio, costruito come una seduta di consulto psicologico necessario per ognuno dei membri del gruppo, Pietro Maximoff stesso spiega:
– Dimmi, dottore, ti è mai capitato di essere in coda a un bancomat con davanti una persona che non sapeva usarlo? O di volere comprare dei francobolli all’ufficio postale e il tizio davanti a te volesse conoscere ogni modo possibile per spedire il suo pacco a Istanbul? O di incontrare qualche cassiere imbecille da Burger King che non era in grado di capire “Whopper senza sottaceti”?
– Beh, sì, penso di sì
– E come ti senti in quelle occasioni?
– Impaziente. Irritato. A volte arrabbiato.
– Precisamente. Perché la tua vita sta venendo rallentata a passo di lumaca dalle incapacità o dal comportamento inopportuno di qualcun altro. Non è una reazione razionale o cortese, ma eccola lì.
Ora immagina, dottore, che ogni persona con cui lavori, ovunque tu vada, il tuo intero mondo sia pieno di persone che non sanno usare il bancomat. Mi azzardo a supporre, dottore, che anche tu ti sentiresti in costante sindrome premestruale. È chiara l’immagine?
Ecco.
Mi sento di dire che è chiarissima.
Anzi, mi sento di dire che lo capisco perfettamente.
Ovviamente non sono un velocista (anzi, sono proprio una tartaruga, fisicamente parlando), ma una cosa di cui ho piena consapevolezza sono i miei processi mentali: non so se si tratti di intuizione, deduzione, estrema razionalità o, al contrario, empatia o un mix di queste cose, quello di cui sono cosciente è che, parlando con diverse persone, non andiamo alla stessa velocità.
So che quello che scrivo potrebbe essere scambiato per una malcelata presunzione relativa alla mia intelligenza, ma assicuro che il punto è un altro.
Pensate a quando vi trovate davanti a qualcuno che impiega cento parole per un concetto che poteva esprimere in dieci.
Pensate a quante volte, ad esempio, avete già capito quello che vi sta venendo detto, ma la persona davanti a voi deve proseguire per la sua strada nonostante abbiate dimostrato di aver capito: per loro la comunicazione non è terminata finché non è stata fatta a modo loro, ma voi avete già ricevuto le informazioni necessarie e il resto vi sta facendo perdere tempo.
O ancora quando siete voi ad aver già effettuato una serie di ragionamenti, analisi, deduzioni e via dicendo e cercate di trasmetterli ripercorrendo i passi che voi avete fatto per giungere lì: peccato che quei passi non siano sufficienti a chi avete davanti; se siete fortunati ci sarà un sereno scambio di informazioni per dettagliare meglio i passaggi mentali, se non lo siete (e, vi assicuro, mi è capitato) potreste trovarvi davanti qualcuno che siccome non ha capito il ragionamento, deduce che voi siate in realtà troppo stupidi per avere capito la complessità vera di un problema e quindi abbiate trovato una soluzione facilona.
Una volta ho impiegato tre ore (TRE ORE) per convincere la persona che avevo davanti a me che una soluzione che avevo proposto dopo mezz’ora di discussione avrebbe fatto esattamente quanto richiesto. Tre ore perché le velocità deduttive erano diverse e, in quel caso, la sua arroganza non le permetteva di ascoltare altro.
Tre ore.
O ancora quando una persona riesce a recepire una spiegazione solo se fatta in un certo momento,se, in qualche modo, la guida passo per passo secondo il suo modo di pensare e capire: l’ho fatto, l’ho fatto quando insegnavo ed è uno dei motivi per cui i bravi insegnanti hanno tutta la mia stima; un conto però è farlo una volta ogni tanto per persone care o regolarmente perché parte del lavoro, un conto sono le situazioni che non rientrano in una delle due casistiche.
È stancante e frustrante e, certe volte, anche inutile, perché alcune persone hanno un margine di manovra talmente stretto che o le si conosce perfettamente e le si sa guidare al meglio, o è tempo tristemente buttato.
Ovviamente tutto questo non implica che si debbano sempre trarre conclusioni con poche informazioni, perché il rischio della cantonata è enorme. Non implica neanche che le mie deduzioni siano sempre giuste: magari lo fossero, probabilmente non mi troverei in certe situazioni di merda.
No, questo post vuole solo dire quel che accennavo sotto la citazione: che sì, io Pietro lo capisco più di una volta e quella sensazione di sentirsi rallentare da altri, quando capita, è una delle più irritanti che possa esistere.
Tutto qui.