66. Notizie che non lo erano
Sono sempre più sensibile all’argomento “corretta informazione”.
Un po’ per il sovraccarico di puttanate (inutile definirle diversamente) che girano sui vari social, un po’ perché gli stessi giornali on line e cartacei non è che facciano un lavoro migliore.
Per questo motivo ho acquistato incuriosito e interessato il libro di Luca Sofri dedicato all’argomento.
Alcune doverose premesse: Sofri, per chi non lo sapesse, è il direttore del Post, uno dei pochi giornali on line che seguo con sufficiente (meglio non sbilanciarsi) fiducia, nato proprio con l’intenzione di cercare di dare le informazioni nel modo più corretto possibile.
Sofri, inoltre, ha per anni tenuto per la Gazzetta dello Sport una rubrica in cui raccontava proprio delle notizie errate dati dai giornali: fa quasi tenerezza pensare che, quando iniziò, dubitava di avere abbastanza informazioni per una rubrica periodica; non ebbe mai penuria di situazioni e, anzi, si è sempre trovato con l’imbarazzo della scelta.
Ma cerchiamo di chiarire: non si sta parlando di un libro in cui un “maestrino” si pone sulla cattedra per dire “noi siamo bravi, voi no, vergogna”. Si tratta di un’analisi sulla situazione di una professione, quella del giornalista, che spesso ha perso il focus su ciò che dovrebbe veramente essere, puntando ormai più ai clic, all’essere i primi a dare una “notizia” (virgolettato voluto), senza preoccuparsi di verificarne attendibilità e fonti.
Si arriva al paradosso che notizie false date come vere non vengano mai ritrattate se non con titoli del tipo “giallo nella vicenda x”: nessun giallo, semplicemente la vicenda era falsa e voi dovreste ritrattare.
Di chi è la colpa?
Molti, soprattutto quelli che lavorano nel campo, danno la colpa ai social: Sofri è di parere contrario.
Non sono i social a creare le notizie false e, soprattutto, non sono loro a diffonderle.
Ma anche fosse non sono loro a dare loro autorità.
L’autorità viene dalla pubblicazione su una testata on line o cartacea, l’autorità viene da un titolo a quattro colonne che neanche dubita della provenienza di un’informazione.
Leggendo i tanti esempi che l’autore porta, quel che colpisce è quanto, se uno volesse davvero approfondire, sarebbero evidenti alcuni casi, quanto siano palesemente infondati altri e quanto, invece, alcuni siano “troppo belli per essere veri”, quelle notizie che ogni giornalista sogna e che, proprio per questo, andrebbero verificate parecchie volte.
Il problema, in tutto questo, non è l’errore. Il problema è ciò che causa quell’errore e come quell’errore viene poi gestito.
Spoiler: non viene gestito. Almeno quasi mai, qui in Italia.
Addirittura ci sono molte notizie false che sono oggi stesso ancora visibili su siti di quotidiani nazionali.
Ad alcune è stato affiancato un articolo che le definisce (vedi sopra) “giallo nella vicenda x”.
Ad altre è stato modificato lievemente il testo (salvo poi lasciare il link che svela com’era la notizia originale).
Molte, si diceva, sono state lasciate così.
Tanto a chi vuoi che freghi?
Poi, certo, i social amplificano e quelle notizie, palesemente false, diventano una “finta realtà” su cui poi la gente pontifica, coi risultati che possiamo vedere del tutto intorno a noi.
Io ho provato a fare un esperimento.
Una o due volte al giorno, vedendo una notizia condivisa, sono andato a cercare le fonti.
Prima risalendo all’articolo originale, poi andando a cercare conferme.
Il risultato? Metà delle volte la notizia veniva da tabloid o blog senza competenze o, addirittura, da siti satirici.
Altre volte era vecchissima e già stata screditata, ma dato che era ancora on line girava ancora come reale.
Ma, si ripete, il problema non sono i social o i lettori: il problema sono quei giornalisti che hanno perso la separazione tra la loro professione e un semplice blogger o utente social che non ha dato esami di giornalismo e non ha nessun obbligo o pretesa di professionalità.
È il giornalista professionista a dover cercare fonti e conferme. È il suo lavoro e, di questo, non può incolpare le finte notizie che riporta perché la differenza tra giornalismo e fanfaronaggine sta proprio nel saper discernere tra bufale e realtà.
Quindi come ci si difende?
Non si può.
Non del tutto almeno.
Perché verificare qualunque notizia è quasi impossibile per chi le riceve e perché la soglia di attenzione si abbassa velocemente.
Possiamo cercare di subodorare quelle palesemente false, di vedere le fonti di molte di queste informazioni, ma prima o poi dovremo arrenderci al fatto che riceveremo sempre notizie parzialmente sbagliate.
Indicativo come, tra i ringraziamenti, Sofri parli del creatore e dei personaggi di quel capolavoro che è “The Newsroom”: segno non solo di quel che dovrebbe essere il giornalismo, ma anche di quanto il giornalismo reale (italico e non solo) sia lontano da quegli standard.
Il libro è interessante, pieno di aneddoti e analisi, si legge molto piacevolmente; soprattutto è interessante leggere gli approfondimenti su come una finta notizia sia stata data per vera.
Un difetto: forse, in alcuni casi, può sembrare poco organico, con le sezioni distribuite in modo arbitrario e senza un’identità ben precisa.
Non si percepisce bene il distacco tra una sezione e l’altra, sostanzialmente.
Peccato veniale, per quanto mi riguarda, in un libro la cui sostanza non cambia e che invito a leggere per capire quanto sia facile ingannarsi e farsi ingannare.